Balthus che amava l'alba

Balthasar Kłossowski de Rola, universalmente noto col nome di Balthus, è stato un pittore di nobili origini polacche (prussiane); parigino nel tumultuoso ‘900 anche se metaforicamente non accasato sulla riva più comoda della Senna – avverso alle avanguardie, gli toccarono in sorte il ditino alzato dei moralisti e il sopracciglio inarcato degli intellettuali progressisti - morto nel 2001 in Svizzera come se non fosse mai stato cittadino del mondo né adulto: demone e asceta, angelo luciferino iniziato alla teosofia, vecchio o bambino, probabilmente entrambe le cose; perché talvolta  il tempo sa ricongiungere in purezza gli esordi con gli epiloghi, sbarazzandosi del logorante tragitto in mezzo. Le guance rosa e le rughe profonde fanno il loro girotondo sublime in certi esseri speciali. Artista per molti aspetti scandaloso, anche se non tutte queste presunte immoralità trovano giustificazione su tela, di certo non quelle legate ai dipinti riguardanti le lascive giovinette, egli dovette subire più volte restrizioni da parte della sempre zelante censura, financo da morto e da “classico”. Tipo nel 2014 a Essen, in Germania. Petizioni e vesti stracciate, la mano davanti alla bocca come tra bigotte comari, sussurri che divennero j’accuse al cospetto della parola impronunciabile, della massima onta perseguibile: pedofilia, nientemeno. Lì si trattava di polaroid scattate alla piccola modella Anna, giacché problemi di cataratta affliggevano il vecchio disegnatore costringendolo al supporto fotografico. Altrove e regolarmente in occasione di sue retrospettive gli strali riguardarono quadri, per l’appunto ritraenti piccole donne in pose sospese tra candore e peccato, tra innocenza e piacere.

Proprio la parola Sospensione potrà essere d’aiuto alla comprensione di tali opere, anche per scapolare la becera pruderie e il pedante galateo di musei che sempre più assomigliano a cimiteri di carta bianca, scatole vuote dove entrare togliendosi le scarpe davanti al nulla. Come diceva Molière? “È il pubblico scandalo ad offendere, peccare in silenzio è non peccare affatto. Così Il vero “skàndalon”, l’ostacolo che l’artista pone a se stesso resta inaccessibile al giudizio morale altrui, lo elude in silenzio per farsi atmosfera, luce e pigmento di risulta, ombra, parvenza d’assenza incombente e occhi famelici che brancolano nel buio. Cecità prerinascimentale, ovvero tutta un’altra luce. Redenzione. Metafisica si direbbe, tutto quello che non è fissato su tela e che sfugge all’occhio, quell’allusione non si sa bene dove collocata, percezione sulla scena, forse messa nei vuoti e nei silenzi intraducibili, in geometrici interstizi, nel sacro o in ciò che ne resta: quello che non torna è il vero osceno di Balthus, il quale dipingendo cedette la mela avvelenata fuori dalle quinte, all’osservatore non ipotizzandone la reprimenda; infatti questo pomo si fissa negli occhi di chi guarda come in uno specchio magico. Uno ci vede l’adulto in fregola non dipinto, il vecchio bavoso fantasma, la stessa mano rugosa dello spettatore frettoloso nel giudizio. E non quella immacolata dell’artista, alieno al senso di colpa, beato parente dei santi.

L’inquietudine inesprimibile di un umido interno parigino, eleganza fattasi obsoleta dinnanzi al correre della moda d’arredo, tutti i rimpianti ben ammobiliati con al centro una pallida minorenne a gambe aperte, in bella mostra sul sofà; ciò fa il paio con le caste madamine torinesi di Casorati, o ancora meglio con le “mancanze” riempite di oggetti – guanti biscotti portici vele quadranti manichini sfere treni ciminiere, fatti, avvenimenti sempre e mai accaduti o sul procinto di svenire tra altre oniriche braccia - luci oblique organizzate da Giorgio de Chirico dentro una clessidra di colori ad olio. A fare da trait d’union col “pictor optimus” la coincidenza di un dioscuro accanto, di un fratello mercuriale: Alberto Savinio per il greco, il filosofo Pierre Kłossowski per Balthasar. Genialità più criptiche quelle, circoli viziosi adombrati sulla meridiana degli eoni, devianze nutrite dal Mito assentatosi, da un codex perduto e trattenuto per sempre, nostalgia, giocattolo rotto nel reame fantastico delle eterne amnesie. La mano nera della dépense di Georges Bataille circuisce il pathos stringandolo in un bustino da puttana, spettri di Sade e Lautréamont sussurrano all’orecchio sconcezze che verranno chiamate a ragione Letteratura. Sono mai coincidenze, sempre concatenazioni. Come quelle che portarono il giovane Balthus a incrociare numi tutelari e sublimi carogne, ovvero altri artisti: Rainer Maria Rilke, Pierre Bonnard, Henri Matisse, Antonin Artaud, Alberto Giacometti, Pablo Picasso, Jacques Lacan, Federico Fellini e molti altri. Indifferente al suo tempo, Balthus inizialmente prese a dipingere gatti, tanto da fondare una sua monarchia felina, ma senza impazzire come accadde a Louis Wain. Talvolta soggetto, più spesso ambasciatore discreto del pittore stesso dentro il suo quadro, il micio si fece daimon, guida divina nel salotto dei supposti peccati, impassibile accanto al divano delle innocenze che stavano per corrompersi, testimone e voyeur silenzioso di un’epifania che odorava di iniziazione alla vita.

Ma è sempre l’istante prima, non tracciabile dalla logica, nel tempo immobilizzato su tela. “... il corpo delle Ninfe era il luogo stesso di una conoscenza terribile, perché al tempo stesso salvatrice e funesta: la conoscenza attraverso la possessione. Una conoscenza che dà la chiaroveggenza, ma può anche consegnare chi la pratica ad una peculiare follia. Il paradosso della Ninfa è questo: possederla significa essere posseduti. E da una forza soverchiante.” Così Scrive Roberto Calasso nel suo La follia che viene dalle Ninfe, estratto quantomai pertinente nella trattazione pseudo-scandalistica, in realtà Mitica, dell’opera pittorica di Balthus. Quando diversi livelli interpretativi si sovrappongono generando ambiguità e talvolta superfluo chiasso mondano, quando la vista vede la fotografia iperrealistica del proprio ombelico morale, in luogo del dito che dovrebbe mettere l’impronta nella piaga della corruzione riguardante la vita, lo scandalo riguarda maggiormente colui che guarda rispetto all’irresponsabile artefice dell’immagine. L’autore non è che un medium e l’immagine è sempre un pretesto, ma visto da due punti di vista inconciliabili: adorazione e profanazione. Prima l’arte, poi semmai i fatti e le opinioni, ammesso che questi ultimi abbiano asilo tra le cose degne d’attenzione. E dunque, chi saranno mai le fanciulle in fiore all’ombra delle quali il desiderio si fa immorale rituale di sperpero? Esse, lontanissime dall’ingranaggio seriale della pornografia e altrettanto distanti dal ridicolo autocompiacimento dell’autoscatto in posa fascinosa ammiccante osé, testimoniano d’un limbo fatato, dell’irreperibilità dell’attimo in gioventù, dell’umido piacere di carni rosee prima dell’avvento dei mostri, di uomini e donne condannati all’età adulta. Narrano della purezza, l’attesa prima di svanire in risposta. Ecco, Balthus seppe cogliere l’immacolata bellezza, odore di borotalco in previsione menarca, riuscì a dipingerla fermando il tempo un momento prima che la rosa si sfilacciasse in memorialistica di rimpianti, in petali essiccati da nascondere in libri che non si leggeranno mai. 

 

 

09-01-2019 | 15:03