Alla ricerca della primavera perduta

Guardare un telegiornale, leggere le notizie di cronaca, immaginare Trump mentre si manifesta in tutto il suo colore (ben oltre quello della chioma fatata) e non riuscire a smetter di pensare a Toku. E a Sentaro. E ai ciliegi in fiore del lontano Giappone, lontano più che mai anche oggi che le distanze culturali e sentimentali, soprattutto, dovrebbero essere rarefatte dalla vicinanza pressoché forzata della globalizzazione.

Nel 2015 Le ricette della signora Toku, scritto e diretto da Naomi Kawase, è stato scelto a Cannes per aprire la sezione Un certain regard e presentatoa Toronto nella sezione Contemporary World Cinema dell’International Film Festival, eppure qui da noi non pare abbia riscosso un particolare successo. Chissà perché, ci si potrà chiedere mentre si è appena finito di commentare l’ennesima notizia di strazio consumatosi per futili motivi, tipo uccidere un genitore perché costituisce un ostacolo fra noi e quella che crediamo potrebbe essere la nostra miserabile esistenza, o sfregiare una donna perché “non ci sta”, o dimenticarsi decine di persone a morire da qualche parte nel mare, o fra le montagne, o dietro casa nostra. E appena finito di commentare guardiamo nel nostro piatto a tavola, col cuore chiuso e la bocca piena e via pronti per un altro giorno in cui basta che il male non tocchi a noi, che poi ci va di traverso oltre tempo massimo.

Toku il male lo ha vissuto in prima persona. Segregata quando era soltanto una ragazzina in un sanatorio a causa della lebbra, costretta a rinunciare al proprio figlio, ignorata dalla società e avulsa da un sognato, normale quotidiano che invece avrebbe potuto vivere, essendo ormai guarita e non contagiosa. Ma le sue mani sono il suo biglietto da visita, le stampano un bel cartello sulla faccia e lei resta “la lebbrosa” per sempre. Nessuno ha voglia di andare oltre le apparenze, nessuno ha il tempo di ascoltare e capire la sua storia.

Eppure Toku non si rassegna ad essere depressa, amara, cattiva: parla con gli alberi e con le marmellate, adora la vita, la scova in ogni angolo e ride e sorride, ritrovandola, paradossalmente, proprio grazie alla magia delle sue martoriate mani, capaci di partorire la marmellata di fagioli dolci più buona che Sentaro abbia mai provato e come lui i molti cui nemmeno la fretta distratta impedisce di cogliere l’essenziale differenza.

Sentaro è un giovane alienato da una società che lo ha escluso, a sua volta, per un errore commesso anni prima e che oggi deve ripagare dedicandosi ad un lavoro che non ama ma che gli tocca implacabilmente, ovvero vendere dorayaki (tipico dolce giapponese) soprattutto agli studenti e alla gente di passaggio, nel locale di un padrone.

Non sorride Sentaro e dalle sue mani la dolcezza stenta a uscire, intrappolata com’è nella sfiducia verso il futuro, che lo spinge ogni giorno di più verso il buio del sé.

Sarà la vecchia Toku a fargli alzare la testa verso i ciliegi che ondeggiano da una stagione all’altra, a insegnargli che per fare una buona marmellata i fagioli li devi trattare con rispetto, che sennò perché dovrebbero diventare buoni poi loro.

Splendida la fotografia di questo film, la calma brace delle immagini con questi colori lividi ma affettuosi, come vecchie pentole di ghisa, accarezza angoli di pelle che avevamo dimenticato di avere.

Un accorato invito al raccoglimento dal lontano Oriente, per guardarci dentro in questi anni di grande confusione emotiva che spesso deriva in forzata indifferenza e, nei casi peggiori in una sorta di psico-apatia con conseguenze raccapriccianti.

Riscoprire il valore della cura del momento banale, che mai banale è vista la caducità dell’esistenza, deve essere un obiettivo di cui non aver pudore a parlare, con buona pace delle ostentate sofisticazioni di chi non nota la differenza fra una marmellata fatta in casa e una industriale.

Ogni piccola ruga sorridente del volto di Toku sembra suggerirci di fermarsi a guardare le facce di quelli che ci circondano e di cercare le loro storie, per ricostruirne una che abbia un senso nella comunità.

La primavera sta per scoppiare da sotto il gelo e la neve, che per alcuni – e mai come quest’anno lo sappiamo bene – è stata grande sofferenza e perdita. Ogni petalo di ciliegio ci richiama prepotentemente al qui e ora come regalo prezioso e mai scontato, da assaporare con tutti i sensi che abbiamo, fintanto che li abbiamo.

Sentaro è perso nello scorrere del tempo che lo consuma per troppa infelicità, mentre la vecchia Toku il tempo lo coccola in una pentola, proteggendo nell’attimo che fugge tutto l’amore che può e cercando di non andare via prima di aver instillato una scintilla di questo amore color ciliegia nell’animo di questo figlio solo apparentemente sconosciuto.

Toku non si accontenta di guardarli, vuole anche sapere chi li ha piantati i ciliegi mentre li sente cantare nel vento; Toku libera un canarino non appena le viene affidato, perché proteggere non può significare costringere, la protezione coatta diventa galera quando le ali possono volare.

Il tempo è prezioso, il tempo è troppo poco, non si può accettare di essere spettatori dell’omicidio della propria e dell’altrui libertà, quando ancora ci è data una scelta. Ancor meno lo si può accettare se a insegnarcelo c’è qualcuno che di scelte ne ha avute ben poche da fare.

Sentaro, grazie a questo vecchio albero umano che prepara marmellate, scoprirà la gioia di cucinare qualcosa di buono da offrire col sorriso, ma soprattutto riprenderà in mano il gusto di rinascere come i fiori di ciliegio, ogni anno, fino a quando qualcuno ricorderà chi li ha piantati.

 

 

01-02-2017 | 12:27