L'infantilismo dell'uomo moderno

“Il nostro modo di essere non è mai del tutto nostro, ma ci viene imposto dall’esterno; ed ecco perché un medesimo uomo può manifestarsi in modo stupido o intelligente, sanguinario o angelico, maturo o immaturo a seconda dello stile che gli capita e del condizionamento esercitato su di lui dagli altri”.

Secondo Witold Gombrowicz, uno dei massimi scrittori polacchi del XX secolo, l’uomo moderno è affetto da una grave malattia che si chiama infantilismo. La sua opera, una satira continua nei confronti della società, è stata capace, sulla traccia di Rebelais e Cervantes, di trattare temi esistenziali e filosofici con leggerezza e provocazione. Sapeva cogliere, più di ogni altro, i paradossi che generano le figure grottesche della contemporaneità.

Riferendosi all’Europa vedeva milioni di individui infantili, privi di un Padre – con la p maiuscola – e privi di una Legge – con la elle maiuscola – beati tra braccia di totalitarismi e ideologie a buon mercato che, poi, li avrebbero rincretiniti a tal punto da farli mettere l’uno contro l’altro sotto bandiere quali “patria”, “razza”, “famiglia”, "proletariato" ecc.

Come riporta Francesco Cataluccio nella prefazione a un interessante libro di Gombrowicz Corso di filosofia in sei ore e un quarto (Bompiani) il segno della modernità per lo scrittore polacco è "il rifiuto di crescere, di sobbarcarsi il peso della responsabilità, il triste onere della maturità, il disorientamento vertiginoso che danno la libertà e la democrazia".

Così come accade a Gingio, il protagonista del suo primo romanzo, Ferdydurke, uscito nel 1937 (in Italia edito da Feltrinelli), che esprime tutta quell'immaturità che si sprigiona nell'uomo di fronte a ogni cultura "non sufficientemente assimilata, digerita e organica".

Un grido, un lamento di un individuo che si difende dalla dissoluzione, dall'imperfezione altrui, perfettamente cosciente della propria.

Tutta l'opera di Gombrowicz sta sul punto di contatto di due delle principali correnti di pensiero del Ventesimo secolo: la psicoanalisi e l'esistenzialismo. Da una parte le regole sociali che danno forma all'individuo, la maschera che gli altri - intesi come società - ci impongono di mettere; dall'altra il comportamento al quale ci conformiamo da soli per essere accettati. Due facce della stessa medaglia che però, sempre secondo la riflessione di Cataluccio, portano allo stesso risultato: "L'uomo non è mai autentico, è sempre deformato, non ha un'esistenza completa, ma un'esistenza corrotta".

Come per il vino, che dopo anni e anni di intervento nella vigna, e nella terra, non si avrà più lo stesso prodotto autentico e naturale, così per l'uomo sarà impossibile ritrovare il vero essere umano sotto le stratificazioni comportamentali imposte. Per dirla alla Rousseau, dopo secoli di storia sarà impossibile ritrovare la realtà effettiva dell'essere umano.

Dunque oggi siamo uomini e donne corrotti da secoli di "educazione", convenzioni sociali, imposizioni culturali, che ci hanno portato ad essere quello che siamo, nel bene e nel male. Ma la visione di Gombrowicz, di un uomo moderno affetto da incapacità di farsi carico di responsabilità, riconduce ad alcuni dettami dell'esistenzialismo, del quale - secondo molti - lo scrittore polacco ne è stato in qualche modo precursore. E di che cosa nello specifico? Della differenza tra esistenza ed essenza. Ossia al fatto che l'uomo non è mai ciò che è, ma ciò che non è. In Ferdydurke "l'uomo viene creato dagli uomini, e gli uomini che si formano a vicenda costituiscono, appunto, l'esistenza e non l'essenza". Teoria alla quale Gombrowicz aggiunge, rispetto all'esistenzialismo classico, una nuova sfera della vita umana, quella dell'immaturità: "Il contributo di ogni esistenza privata all'esistenzialismo".

Forse rileggendo l'opera dello scrittore polacco tante cose della stagione politica, sociale ed economica che stiamo vivendo appariranno più chiare. Ma solo se ci saremo tolti il pollice dalla bocca.

 

 

17-06-2014 | 09:14