Lacrime e polvere dell'innominabile

Nell’ambito del pensiero tradizionalista, metafisico, antimoderno con particolare propensione esoterica, spicca tra fumisterie d’azzeccagarbugli e pseudo-maghi infatuati dal nazismo, tra santoni biancovestiti e fattucchiere tzigane la figura dello scrittore francese René Guénon. Nato a Blois nel 1886 e morto Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya (in seguito alla conversione all’Islam) al Cairo nel 1951, resta all’oggi il riferimento più importante per chi desiderasse approfondire tematiche spirituali da un punto di vista profondamente sapienziale, equidistante dal fideismo essoterico quanto dalla “culturale” libertà d’opinione. Introdotto già in giovane età negli ambienti occultistici parigini, egli fu in grado di offrire attraverso una corposa pubblicistica gli strumenti adeguati per contrapporre allo storicismo nozionistico, pedagogico, didattico, pedantemente funzionale all’illusorio incedere del progresso e al più tangibile passo ferrato della tecnica, tutt’altra strabiliante narrazione; come in un inusitato ribaltamento di polarità si potrebbe scoprire così che il nostro tanto coccolato evoluzionismo non è altro che un baratro d’apocalisse - sordido regno della quantità, kali yuga, ultima delle quattro grandi ere - e che l’età dell’oro resta immacolata in algide dimore spaziotemporali, in un remoto passato insondabile del quale ai contemporanei restano null’altro che cocci e feticci. Guénon, assieme ad altri grandi pensatori reazionari a lui solitamente accostati (Evola, Burckhardt, Schuon, Coomaraswamy, Eliade, Gurdjieff, Blavatsky, Crowley, per stare ai più noti) seppe ben maneggiare ciò che il nuovo mondo positivista si apprestava a gettare nel cassonetto dei rifiuti, per fare di quella materia suggestiva e irrazionale ormai inservibile un sistema alternativo, anti-utilitaristico, di visione dell’uomo rispetto al sacro e al tempo; giudicando fantasticheria, superstizione, eccentricità tardo-romantica la frastagliata dottrina che usciva da quegli stravaganti cenacoli, l’emancipato Occidente piombò mestamente e meritatamente nel buco nero del nichilismo, laddove tuttora la filosofia ufficiale s’arrabatta con manichea inanità, mentre la cosiddetta Tradizione sembra sempre risorgere dalle proprie ceneri, facendosi atemporale insegnamento, eterno codice e ultimo appiglio contro la decadenza meccanica generata dal materialismo.

Ciò che contraddistingue l’opera di Guénon è la capacità – e non sembri un’eresia, vista la permalosità degli adepti – di adottare un approccio indagatorio espositivo “illuminista”, sistematico, in fondo provvisto di una sua logica, e di applicarlo scientemente a una materia oscura, magmatica, mitologica, talvolta impalpabilmente allegorica. Riesce a farlo impersonalmente, senza tradire volontà di parte, scevro da forzature ideologiche o interessi di bottega, bensì tirando le fila di un disegno fatalista, ricostruendo pazientemente i piani sovraumani visti da quaggiù, come si trattasse di un mosaico celeste perduto; ovvero ciò che collega da sempre e per sempre i segni del frammentario transito mondano all’unità divina. Trascendenza per l’appunto, memorie mistiche (ed eretiche) di Meister Eckhart, Oriente e Occidente, alto e basso; e poi ancora Taoismo, Induismo, Islam, Ebraismo, Cristianesimo, Ermetismo, Massoneria, codici tradizionali miniati nel medesimo affresco, divisi in superficie ma confratelli nel profondo. Per intenderci coi contrari, pensiamo a Il nome della rosa di Umberto Eco, dove appare chiara la capziosità dell’autore nel tentativo di contrapporre artatamente oscurantismi religiosi medievali a libero pensiero già protorinascimentale; superbia intellettualistica di voler rimodulare la stratificata complessità della Storia, per farne un cabaret di bonbon da portare al tavolino di quella miseria che è il razionalismo, o peggio il punto di vista personale, vieppiù tale se rapportato all’insondabile mistero che da sempre lo sovrasta. Sul versante opposto si pensi invece a Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola, summa con pretese riordinatrici, ma già dal titolo improntata a una forma d’azione scomposta, gonfia di fallace volontà, di settarismo e quindi di squilibrio speculativo, d’individualismo divisivo, proselitista nel porre giudizi di valore tra diverse forme spirituali. Ebbene, leggendo Guénon si ha la netta impressione di avere a che fare con un vero “pontifex”, con un ricostruttore di ponti, di viatici tra civiltà, culti, simboli, riti, financo astri… giammai con un demolitore di qualcosa in favore d’altro.  

“E più si cresce e più mestieri nuovi, gli artisti pop, i manifesti ai muri, i Mantra e gli Hare Hare a mille lire, l'esoterismo di René Guénon. Una Signora vende corpi astrali, i Budda vanno sopra i comodini, deduco da una frase del Vangelo che è meglio un imbianchino di Le Corbusier.” Così canta Franco Battiato in Magic shop, brano contenuto nel celebrato disco L’era del cinghiale bianco (1979), pesantemente influenzato proprio dalla filosofia perenne di Guénon; passaggio di consegne curioso ma non troppo – poi per il musicista catanese giungerà l’apporto fondamentale dell’argonauta pessimista Manlio Sgalambro -, iniziazione spuria all’epoca del boom consumistico, in grado di traslare la lezione inattuale degli stati molteplici dell’essere nel catodico scatolone domestico, come messaggio subliminale abbandonato dove capita, a tutto beneficio di plaudenti giustamente inconsapevoli (come quando a messa i contadini pur non comprendendo il latino ne percepivano la musicale ritualità), criptico cadeau offerto all’ignaro pubblico a casa; già negli anni ‘60 il pensiero di Guénon, in fondo così gerarchico ed elitario, trovò paradossale fortuna presso la controcultura hippy, tempo prima che a guastare tutto giungessero le edulcorate amenità new-age con incensi puzzolenti e i corsi di yoga per milf annoiate tenuti in palestre di cemento armato, nei pressi di alienanti centri commerciali.

Approcciarsi al pensiero dell’esoterista francese significa procedere gradualmente, passi inghiottiti in una selva intricata di simboli numeri bestie e divinità, tetra boscaglia labirintica apparentemente sincretista, balletto incerto sulla vischiosa ragnatela dove seccano le mosche morte della contingenza, oppure beatitudine nella geometria dorata e perfetta di un alveare d’api: ordine e caos, luci e tenebre, Kronos e Aion, tutte dicotomie già sistemate in qualche equilibrio insondabile, nell’ananke predatata muovono a spirale il gorgo e la vertigine; a seconda dell’occhio di chi è visto dalla vista, tanto per tornare al C.B. più ermetico. Allora ai novizi tocca partire da L’esoterismo di Dante e da Il re del mondo (entrambi Adelphi) ma solo dopo aver studiato Bibbia, Corano, Bhagavad Gita e filosofia greca. Successivamente quei due testi inaugurali possono essere considerati basilari per varcare la soglia di ciò che sta dietro i fatti, per approfondire quello che cova sotto la cenere della stucchevole divulgazione storica o peggio cronachistica; la verità per Guénon resta immacolata emanazione del Divino, dogma posto su un doppio asse – verticale orizzontale - nel punto d’incontro, l’attimo e il luogo sacro della croce, dell’incrocio che trova carne passeggera nell’uomo. Simbolo celtico, presente in tutte le Civiltà premoderne, poi cristiano, cattolico e perciò universale, soprattutto segno potente di semplificazione cosmica. Al di là della memorialistica che scivola via liquida, oltre la transumanza delle opinioni freschissime che domani saranno già vecchie, Guénon contrappone una rigorosa concatenazione di tracce imperiture, la via dell’ascesi. Il tempo gira in tondo, si morde la coda, non è quella lineare freccia infuocata diretta chissà dove. Il tempo non esiste.

L’abbiamo visto tutti in presa diretta e con parossistico turbamento il collasso tra le fiamme della flèche de Notre-Dame de Paris, rogo di un pinnacolo riprodotto all’infinto nei pixel rossastri degli smartphones, cartolina di amene memorie da villeggianti fattasi fumante barbecue per nichilisti o scomposto intrattenimento neo-apocalittico; emotività collettiva scossa, chiacchiericcio, istintiva necessità di individuare un colpevole, chessò l’attentatore iconoclasta, un nemico forestiero che s’accollasse la responsabilità del gesto con la prospettiva di sollazzarsi nella Jenna con un numero imprecisato di vergini. Il capro espiatorio, giacché tanto oltraggio avrebbe meritato quantomeno un antieroe da abbrustolire per vendetta. Il pensiero invece dovrebbe correre al ponte di Mostar, a Palmira, alla Basilica di San Francesco ad Assisi, ai Buddha di Bamiyan, a Dresda, Cassino, L’Aquila e a chissà quanti altri casi emblematici, ai disastri di un tempo gonfio di passato, saturo di vestigia divenute pietre morte, sazio di sé fino a scoppiare. Si obietterà che v’è differenza tra distruzione per mano dell’uomo e devastazione a causa di sconvolgimenti naturali, oppure ancora per banali cortocircuiti elettrici, in un periodo nel quale la sicurezza s’è fatta slogan ridondante, dogma con telecamere per quartieri residenziali. René Guénon, fosse ancora vivo, probabilmente alzerebbe un sopracciglio senza replicare, giacché Uomo e Terra (o natura), per lui erano la stessa cosa: materia bruta, concime per cicli fuori misura, lacrime e polvere dell’innominabile.  

 

 

06-05-2019 | 12:42