Il Canto di Natale e Marx

Il romanzo breve Canto di Natale, di Charles Dickens, uscì per la prima volta nel 1843, qualche anno prima della pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels, quindi in perfetta concomitanza con lo spirito del tempo. Accolto già alla prima edizione da un grande successo popolare, il volumetto confermò l’attenzione dell’autore verso tematiche sociali, in particolar modo riguardo alle condizioni dei ceti meno abbienti, nonché lo status di classico contemporaneo, senza che si dovesse attendere la sentenza del tempo.

Lo scenario urbano efficacemente ritratto dal grande scrittore inglese, caratterizzato dallo spleen invernale tipicamente nordico e da una pittoresca povertà diffusa, rappresenta senza dubbio il valore aggiunto del testo, una sorta di umida atmosfera decadente nella città dai mille comignoli fumanti, non dissimile da altri eccellenti episodi della letteratura di epoca vittoriana; classici quali Sherlock Holmes di Doyle, Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, Jane Eyre di Charlotte Bronte, Le avventure di Oliver Twist dello stesso Dickens, contribuiranno decisamente ad alimentare quel codice estetico tipicamente anglosassone, sempre in perfetto equilibrio tra conservatorismo formale ed attenzione ai radicali mutazioni sociali.

La storia è nota, anche perché ripresa più volte dalla cinematografia, come nel caso più recente del colossal Disney A Christmas Carol di Robert Zemeckis, uscito nel 2009: è la vigilia di Natale a Londra, il ricco, misantropo e cattivissimo Ebenezer Scrooge, dopo aver maltrattato tra gli altri l’unico povero dipendente – stereotipo del perfetto proletario - ed il bonario nipote, riceve la visita notturna di tre fantasmi, rappresentanti rispettivamente lo spirito del natale passato, presente e futuro.

Saranno proprio queste allegoriche elucubrazioni della coscienza a metterlo sulla retta via, mostrandogli con un transfert spazio-temporale, cause ed effetti della sua disdicevole condotta. Il giorno dopo, memore dei realistici incubi, il vecchio Scrooge non saprà contenere la bontà troppo a lungo repressa e darà seguito concretamente alla propria redenzione. Nient’altro che una favola moralista, si potrebbe obiettare, se il racconto non rappresentasse esattamente quello che vorremmo ci venisse raccontato, da metà Dicembre di ogni anno, indipendentemente dall’età.

La narrazione, ai limiti del gotico, sfrutta abilmente contrapposizioni suggestionanti, creando di fatto l’efficace gioco retorico che sta alla base del romanzo: il freddo e lo sporco delle strade londinesi ed il caldo dei focolari domestici, l’avidità dei ricchi speculatori e la generosità solidale di chi ha poco o nulla di cui vivere, l’iperrealismo suburbano e l’onirica redenzione in fondo così protestante (tanto da lasciare sullo sfondo il Natale cristiano), il cinico materialismo mercantile caratteristico della società anglosassone e l’illuminazione filantropica speculare.

Oltre a ciò, è presente nel romanzo una sorta di antitesi del pensiero leopardiano, o per lo meno il tentativo di disinnescare la trappola paralizzante, insita ne Il Sabato del villaggio. Il fatidico “giorno dopo”, per Charles Dickens, si conferma per quello che dovrebbe essere, ovvero un magico e luminoso momento di festa condivisa. Sfarzosi festeggiamenti in palazzi aristocratici o piccole gioie domestiche in sordide topaie, poco importa; l’umanità raccolta attorno al lieto fine, descritta nel libro, non ha alcuna intenzione di mettere sotto scacco la purezza simbolica del Natale con un nichilismo preventivo. E quindi ecco pudding e oca al forno, vischio ed agrifoglio, botteghe dalle vetrine meravigliose e camini scoppiettanti, luminarie e doni per grandi e piccini. Perché, se non fosse la sensibilità ad imporlo, è implicito un galateo natalizio che non ammette deroghe al cinismo: arriverà il giorno della festa e ci faremo trovare pronti, tutti ovviamente più buoni per l’occasione. 

 

 

04-12-2015 | 11:22