George Clooney in assenza di gravità
In un momento d’intense attività spaziali che vedono protagonista l’Europa, dal ritorno dell’astronauta italiano Luca Parmitano lo scorso novembre, dopo oltre 5 mesi di permanenza sulla Stazione Spaziale Internazionale, al lancio, il 19 dicembre, della missione GAIA dell’ ESA, destinata a mappare in 3-D un miliardo di stelle della nostra galassia, come non consigliare il film Gravity per queste festività. L’ultima fatica di Alfonso Cuaròn, presentato fuori concorso alla 70esima Mostra del cinema di Venezia, è un’eccellente alternativa ai classici Disney, non foss’altro che per le spettacolari immagini della Terra vista dallo spazio – fornite a Cuaròn direttamente dalla NASA – e per gli incredibili effetti 3-D che ci fanno “vivere” la sensazione della microgravità. Come se, a fluttuare nello spazio, ci fossimo noi al posto dei protagonisti Sandra Bullock e George Clooney. Una vera “magia” costata a Cuaròn ben 4 anni di lavoro sul set e procedimenti inediti per simulare in modo incredibilmente realistico l’assenza di gravità. Uno di questi si chiama “Light box”: inventata da Tim Webber, il supervisore agli effetti visivi: un cubo di sei metri per tre, in cui l’attore è letteralmente sospeso a cavi manipolati da marionettisti o da robot (a seconda della velocità delle scene), e foderato su ogni lato da 1096 schermi con oltre 780 mila luci Led, per simulare ogni possibile ambiente luminoso, in modo da rendere compatibili le immagini reali dei volti degli attori con le animazioni in 3-D delle loro evoluzioni nello spazio. L’effetto è garantito! (La Zero-G l’ho provata sulla mia pelle! Vedi clip alla fine del testo).
Il film comincia con un’affermazione: “A 400 km sopra la terra, la vista è mozzafiato, ma la vita è impossibile”. Chi è stato nello spazio, come l’astronauta ESA Michel Tognini, veterano di stazioni orbitanti e telescopi spaziali (ha soggiornato sulla stazione russa MIR nel 1992, volato con lo shuttle Columbia nel 1999 per la messa a punto del telescopio spaziale Chandra e diretto il Centro Europeo Astronauti di Colonia), non può che essere d’accordo. “La vita è decisamente impossibile lassù, non c’è aria, non c’è ossigeno, ma questo è il meno. Si può resistere in apnea fino a 10’ sulla terra o sott’acqua. Nello spazio la cosa peggiore è il vuoto: il sangue entra in ebollizione entro 2’. E poi le temperature: da lato sole ci prendiamo +150 gradi C, dal lato buio, -150!”.
“Per vivere e lavorare a 400 km oltre l’atmosfera – continua Tognini – occorre assicurare tutta una serie di condizioni da cui dipende la sopravvivenza degli astronauti. La stazione spaziale è ermetica e pressurizzata a 1 atmosfera (come sulla terra) e contiene le stesse percentuali di ossigeno (circa 21%) e azoto (circa 79%). La pressione diminuisce ogni giorno man mano che si consuma l’ossigeno, ed è pertanto necessario produrne continuamente, attraverso l’elettrolisi dell’acqua ottenuta dall’urina degli astronauti. Il Life Support System (lo scafandro o tuta) che gli astronauti utilizzano per le uscite extra-veicolari (alias E.V.A, alias passeggiate spaziali) è una vera e propria mini-navicella, con la differenza che la pressione è tenuta a 0,4 atmosfere, altrimenti impedirebbe i movimenti degli astronauti. Poi l’ossigeno che respirano è puro, non misto. Tutti i parametri della stazione e delle tute per le uscite sono noti e verificati costantemente, sia da bordo sia sulla terra”. Ma non sono mancate le situazioni critiche: da incendi a bordo della stazione a collisioni con navette in avvicinamento (la navetta cargo Progress con la stazione russa Mir nel 1997). Il più recente, l’acqua nello scafandro di Luca Parmitano, che ha corso il rischio di annegare durante una delle sue recenti attività extra-veicolari. Ma nello spazio, si sa, “failure is not an option” e gran parte della formazione degli astronauti è dedicata alla gestione di queste e molte altre emergenze.
Torniamo al film. Gravity comincia con l’attività extra-veicolare di Ryan Stone (Sandra Bullock), astronauta-specialista di missione alla sua prima uscita, intenta a effettuare una complessa operazione di manutenzione del telescopio spaziale Hubble. E’ accompagnata dal veterano dello spazio Matt Kowalsky (George Clooney), che le “svolazza” letteralmente intorno utilizzando il “jetpack” (il getto automatico di stabilizzazione agganciato sotto la tuta e utilizzato manualmente dagli astronauti per rientrare nel veicolo spaziale in caso di emergenza). Un’improvvisa pioggia di detriti spaziali, provenienti dalla frammentazione di un satellite russo, interrompe l’operazione e comincia così un’ora e mezza di suspense agghiacciante, con il telescopio e lo Shuttle ridotti in brandelli e i due astronauti in balìa del vuoto. La domanda che sorge spontanea è: “Nella realtà può accadere un’emergenza del genere?”.
Il problema è reale, poiché la terra è circondata da oltre mezzo milione di rifiuti spaziali, da componenti di razzi delle dimensioni di un autobus, strumenti persi dagli astronauti a scaglie di vernice di meno di 1 cm. Ogni volta che due oggetti collidono a quelle velocità, si frantumano in decine di migliaia di frammenti vaganti a velocità vertiginose, che rappresentano un rischio (contemplato anche dalle pratiche assicurative) per i satelliti in funzione e per la Stazione Spaziale. Lo scenario ha persino un nome ufficiale NASA, la “sindrome di Kessler” (dall’ingegnere che per primo lo ha prospettato), una reazione a catena di collisioni spaziali inarrestabili. La versione proposta da Cuaròn nel film non è quindi del tutto inverosimile, “ma sarebbe impossibile oggi”, assicura Tognini. “Quando si lancia un missile per distruggere un satellite in disuso, lo si fa all’altezza dell’orbita dei satelliti, molto più in alto rispetto alla Stazione e al Telescopio Hubble (800 km). E poi si evita accuratamente di farlo mentre è in corso una qualsiasi attività spaziale, men che meno durante un’E.V.A”.
Ma ritorniamo alla pellicola. Subito dopo lo sfortunato incidente, Clooney trascina la collega al riparo sulla Stazione Spaziale. Distrutta anche questa e, successivamente, perso Clooney nello spazio, la Bullock si ritrova da sola a inseguire la salvezza in una missione impossibile, suggeritale da Clooney, cercando di intercettare la Stazione Spaziale cinese verso la quale si dirige con un getto proveniente da un estintore. “Questo non è credibile – spiega Tognini – e non tanto per l’uso del getto dell’estintore. Durante le prime uscite extra-veicolari 50 anni fa, infatti, gli astronauti utilizzavano una specie di pistola ad aria compressa per cambiare direzione. Quindi l’idea di prendere un estintore in un caso di emergenza tragica come quella del film non è proprio inverosimile, anzi mi sembra un’idea non stupida” (bisogna essere James Bond per mirare gusto però!). Il vero problema sono le orbite. La Stazione Spaziale si trova su un’orbita e un’inclinazione (51.6 gradi) rispetto alla terra diverse da quelle della stazione cinese (42.78). “Impossibile cambiare l’inclinazione di 10 gradi mentre si fluttua alla velocità di 28 mila km orari (la velocità della Stazione in orbita) con soltanto il getto dell’estintore”. Ma questo, secondo Tognini, non è un errore che pregiudica il film, né impedisce di goderselo. Così come sono perdonabili altre inverosimiglianze.
Ad esempio i pantaloncini e canotta che la Bullock indossa sotto la tuta dell’astronauta. La realtà è molto meno sexy e confortevole, sono previsti diversi strati, circuiti elettrici, ventilazione e persino un pannolone! L’errore che Tognini (e con lui chiunque capisca qualcosa di spazio e gravità) reputa imperdonabile è lo scenario scelto da Cuaron per la morte di Clooney. “Sinceramente, avrebbe potuto scegliere molte altre maniere, altrettanto drammatiche ma più plausibili per farlo morire”. Per evitare di rompere il cordame del paracadute della Soyuz, che tiene la Bullock attaccata letteralmente con un filo alla Stazione e quindi alla salvezza, Clooney si stacca dal cavo che lo lega a lei e vola via perdendosi nello spazio. “Questo è proprio un errore concettuale. Una volta terminata la rotazione tra i due e i pezzi della stazione a cui si aggrappano, non può esserci tensione nel cavo che li lega e soprattutto non nel senso opposto l’uno dall’altra, visto che non c’è gravità per allontanare Clooney da Sandra!”. Nonostante questo errore, il film è piaciuto anche all’astronauta. “Molto bello, con immagini di altissima qualità, soprattutto tutte quelle all’interno e all’esterno delle navicelle spaziali, nella Stazione come nella Soyuz (che conosco direttamente), ricreate in modo veramente fedele. La resa degli esterni, nello spazio, perfetta. Credo sia uno dei primi film in 3-D sullo spazio, che è il vero protagonista. E questo può solo aiutare la divulgazione”. Le imprecisioni scientifiche del film non impediscono nemmeno ad un astronauta di restare a bocca aperta di fronte alle immagini spettacolari, né intaccano per un solo momento la suspense e la tragedia umana che si sta consumando sotto i nostri occhi. Perché Gravity non è una ricostruzione di fatti realmente accaduti, come Apollo 13. Gravity è una storia di sopravvivenza, un dramma umano e un film in 3-D eccezionale.