Una figura biblica, grandiosa

Cinquantadue anni fa, il 13 febbraio 1968, ci lasciava ottantottenne Ildebrando Pizzetti, uno dei maggiori compositori nel panorama europeo novecentesco e il maggiore della natia Parma nel secolo trascorso (tacendo il ”genius loci” Giuseppe Verdi…). Io ebbi modo di incontrare il Maestro nel 1963, quando ricevette la cittadinanza onoraria di Busseto. Allora lavoravo nella redazione del bollettino "Verdi", all'Istituto di studi verdiani, di cui Pizzetti era presidente onorario. Brando, come lo chiamavano in famiglia, venne a trovarci nelle due stanzette che avevamo al Conservatorio. Il fondatore-direttore dell’Istituto, Mario Medici, mi presentò a quella personcina linda e garbata, fragilissima eppure tanto vigorosa ancora. Gli dissi che custodivo alcuni suoi autografi, musicali e letterali, che il violinista Mario Corti, maestro di mio padre Ermanno, mi aveva lasciato con altrettanto paterna sensibilità. Corti era poco più giovane di Pizzetti, della stessa terra, collega al Conservatorio di Parma e all'Accademia di Santa Cecilia, nonché suo interprete qualificato. Ma Pizzetti era stanco, i suoi occhi faticavano a guardare dietro le spesse lenti e non sembrò dare troppo peso alle mie informazioni.

II giorno dopo a Busseto, nell'aula consiliare dove ebbe luogo una seduta del direttivo dell'Istituto, l'anziano Ildebrando apparve giulivo e vivace. Parlò di Verdi, di Parma, di Busseto, dell'Istituto verdiano appena sorto. Aveva la classica giacchetta di velluto e teneva la destra sul fianco. Mi ricordava certe foto del suo grande amico Gabriele D'Annunzio. Pizzetti attraeva anche noi giovani col suo atteggiamento franco e semplice, l'espressione gentile e insieme il modo gagliardo, temperato da una affabile natura, che dichiaravano il carattere di una moralità: la musica vissuta in linea retta, senza deviazioni, devota, e nel pieno possesso di una lucida intelligenza.

Più tardi gli mandai in visione l'autografo del suo Poema emiliano, incompiuto, che non possedeva più. Il lavoro, del 1913, doveva risultare per violino e orchestra, con titoli descrittivi: Nel bosco di Nebbiara, Sole di mezzogiorno, Nel giardino delle gardenie, Inno alla terra… Un saluto alla regione-madre, "la grande e solenne e dolce e cara pianura della mia terra d'Emilia che tante volte m'aveva parlato, e sempre parlerà a chiunque saprà intenderla, dalla vetta dei suoi alberi frementi al vento e dalla distesa dei suoi prati fioriti di ranuncoli". Mi rese lo schizzo accompagnandolo con una fotografia e un ringraziamento all' "amorevole e geloso custode" (la grafia ormai tremula, eravamo nel 1967…).

Tra le sue carte ritrovai anche l'autografo di un articolo in forma di lettera, Caro Conservatorio del Carmine, pubblicato in Giallo e Blu, strenna parmigiana per l'anno 1950, il titolo leggermente modificato: "del Carmine" sostituito con "di Parma": soltanto in pochi sapevano e sanno come la nostra scuola musicale abbia sede nell'antico ex convento del Carmine. Un attestato di riconoscenza e di simpatia. “Non scrivo, oggi, per parlare di me alunno del Conservatorio di Parma (la 'Scuola del Carmine', diceva mio padre: e con quel suo nome originario io ho sempre continuato e continuo a rammentarla). Scrivo per dire un grazie a quel Conservatorio del quale fui per cinque anni alunno, e per rievocare, come mi tornano al cuore e alla memoria, alcuni di quei maestri dai quali appresi il più di quel poco che so". E li nomina, i maestri, facendo lodi al loro "umile e pur appassionato amore" per la musica, condiviso da tutti, musicisti e appassionati. E cita in particolare Giovanni Tebaldini, il direttore, che tentava di introdurre nei programmi ufficiali dell’Istituto maggiori conoscenze del canto gregoriano e della polifonia rinascimentale "recitar cantando" fiorentino, un'armonia prevalentemente diatonica, con risonanze arcaiche nell'adozione frequente della “modalità” antica.

Verso fine ottobre del 1900 Tebaldini portò il Conservatorio in visita a Sant’Agata. Dietro sua presentazione il giovane Brando ne scriverà in un articolo per la Gazzetta musicale di Milano: “Il Maestro incedeva maestosamente, con una meravigliosa semplicità di movimenti. Io non so dire cosa abbia sentito in quel momento; mi è parso di dover piangere, di dover gridare con tutte le mie forze un inno di ammirazione. Vivessi cento anni, non dimenticherei mai l’impressione di quei pochi momenti… nei quali Egli era là, a pochi passi da me, sereno e solenne, una figura biblica, grandiosa, un’apparizione di sogno...”. Con alcune varianti ne riparlerà, più tardi in altre sedi e con maggiori, ampi approfondimenti. Ma la prima folgorazione conserva una magia che dalla fama delle opere investiva il personaggio, il Verdi uomo, anche agli occhi di coloro che non capivano l’intero valore del musicista-drammaturgo. Suggestione di un mito che Pizzetti riportò in luce quando accettò la presidenza onoraria dell’Istituto verdiano con una confessione da ricordare: “Io non sono, né pretendo esserlo, né uno storico né un critico. Non sono che un vecchio musicista che sempre, ancor più che venerato, ha amato Verdi e le opere sue”. Unione di mestiere e fraternità, riconoscibile nelle due componenti dell’arte drammaturgica che nutrono la musicalità più vissuta: declamazione (la parola che dà nome) e canto melodico (che esalta i sentimenti fino alla sublimazione. Non sempre il compositore sa riconoscerli al momento della coniugazione, che richiede la massima onestà di comportamento. Pizzetti si applicò a volerli, non considerò mai puro divertimento l’invenzione musicale, ed ebbe così del suono il massimo rispetto anche nella ricerca delle innovazioni armoniche e strutturali. L’amore per Verdi lo portò certamente ad approfondire il significato che il “numen” assegna al binomio declamazione-canto melodico, soprattutto in Otello, dove rimangono memorabili momenti come “Dio mi potevi scagliar…” e “Ave Maria”: salendo sui gradini della declamazione, scolpiti dallo scalpello del genio su uno sfondo strumentale appena percettibile, spicca il volo l’ala del canto lirico, l’arioso modellato sulla scansione del precedente parlato.

Ho indugiato sull’argomento, forse più del necessario, ma mi sembrava utile per sottolineare l’influenza su Pizzetti…

La Sonata in la, del 1919, è un capitolo fondamentale della sua produzione: la prima Guerra mondiale 1915-18 con i suoi lutti orrendi e disastrose rovine, torna alla memoria degli italiani in un teatro ideale, una scena emozionante che dà il batticuore. I due strumenti sono voci di personaggi che si confrontano: il pianoforte con insistenza perentoria quasi arrogante, ora respinge ora incoraggia il messaggio del violino che denuncia sofferente la propria condizione: dolcezza e sdegno rassegnato si alternano a contestare una condanna immeritata. Gli interpreti hanno accentuato il carattere rapsodico della Sonata, offrendo unarealizzazione che convince poeticamente l'ascoltatore (un parere condiviso dall’autorevole penna di Quirino Principe). Il primo movimento ispirato al dramma della battaglia, dai colori cupi e tesi; il movimento centrale alla memoria delle vittime (Preghiera per gl’innocenti), dove il tema iniziale, a mo’ di corale, affidato al pianoforte viene ripreso dal violino con uno slancio espressivo (“molto sostenuto con intenso fervore”) pagina che potrebbe intitolare il significato dell’intero lavorol’ultimo movimento libera la gioia per la fine della guerra: un rincorrersi di festanti richiami ispirati a balli e motivi popolari.

Prima esecuzione a Firenze, pf Ernesto Consolo 1919 poi 51 concerti proposti da Mario Corti.

Tre Canti datati 1924, “Improvvisi” presi come immagini in volo: si aggiunge Aria del 1906 dedicata a Mario Corti, campionari ideali per saggiare l’eleganza e il buon gusto di un maestro dalla natura aggraziata e cortese (ma dove non mancano gli imprevisti infuocati crateri), dalla lunga preparazione, che nel genere strumentale non pesa mai sull’ascoltatore, sa come ‘entrare’ con freschezza.

Il primo Canto è spiritoso, comprende anche un paio di “singhiozzi” (gli hoquetus dell’Ars Antiqua) un espediente erudito da togliere il fiato e avvisarci che si può scherzare anche se non stiamo facendo per finta. A me par d’essere in aula accademica a sperimentare l’enigmistica dei contrappunti coi liberi incroci generati dalla maestà delle regole e temperati da armonie polimodali.

Il passo successivo ci rende consapevoli che i tempi della goliardia seriosa sono trascorsi e andiamo ad assumerci le responsabilità che seguono allo studentato… Qualcuno si chiederà dove sta scritto: la musica non rilascia spiegazioni si spiega da sola. Il Secondo Canto, detto con lineare andamento “quasi grave e commosso” si giunge alla tensione appassionata del Terzo Canto, largo di recuperi provenienti da vari angoli, dalla canzone rinascimentale a quella Old America, e rovesci di intemperie, e orazioni d’anime turbate; nell’insieme la vedrei come una prova generale della Sonata se non fosse stata scritta dopo.

Conclude l’Omaggio a Pizzetti la citata Aria, apprendistato di chi comincia la salita e forse non sa ancora cosa l’aspetta fra illusioni delusioni, premi e sconfitte, ma anche coraggio d’allungare il collo verso il futuro. E dell’aria ce n’è con profumo di giglio e incenso e l’organo che suona armonioso e pieno alla Respighi.

 

 

05-11-2020 | 00:07