Strindberg in love

Pietro Iannibelli

Sebbene siano edificanti e in un certo senso stupefacenti, non c’è cosa al mondo più noiosa degli amori lunghi e felici, la monotonia dei quali è a dir poco soporifera. Cercare di raccontarli è di conseguenza un atto destinato all’insuccesso: che cosa se ne potrebbe dire se non li riguarda altro che la piatta corrispondenza tra due anime moderate le cui contrarietà, nel peggiore dei casi, non oltrepassano il disappunto? Sarebbe come cercare gusti complessi nel sapore dello zucchero comune. Del resto, nessuno avrebbe mai saputo nulla di Filemone e Bauci se Zeus ed Ermes non si fossero per caso trovati a passare davanti alla loro casa. È perciò preferibile soffermarsi su quegli amori dinamici e tortuosi che assumendo contorni melodrammatici e talvolta tragici si sono manifestati attraverso il tormento, l’angoscia, la disperazione, l’inedia, l’insonnia, lo struggimento, per infine cessare. Inoltre, di tali amori se ne incontrano moltissimi nella storia dell’umanità, mentre dei primi pochissimi, e questa abbondanza fa sì che si possa attingere a una casistica straordinariamente varia. Innumerevoli storie d’amore infatti – senza tener conto di quelle passioni immortali che portarono gli amanti a pagare con la vita la loro reciproca devozione – si sono impigliate, dopo un inizio felice, nell’inconciliabilità dei caratteri e nell’incompatibilità, e sono con il tempo divenute lo scontro tra due soggettività avversarie che nella discordia hanno trovato il loro modo di evolvere, prima di doversi estinguere nell’estraneità. È il caso della relazione fra August Strindberg e la sua terza moglie, Harriet Bosse.

I due si conobbero nella primavera del 1900. Harriet era un’attrice norvegese che cominciava allora a farsi notare nei teatri di Stoccolma, Strindberg invece era già Strindberg. Lui aveva cinquantun anni, lei appena ventidue. Si sposarono nel maggio del 1901, nel 1902 ebbero una figlia, Anne Marie, e nel 1904 divorziarono. La loro relazione continuò tuttavia fino al 1908, quando lei decise di risposarsi. In apparenza fu una storia d’amore comune, col consueto strascico finale, ma la si sminuirebbe ritenendola tale, soprattutto perché una delle personalità in gioco era August Strindberg, un uomo eccentrico e squilibrato. Neppure Harriett tuttavia scherzava in quanto a eccentricità: in una delle prime lettere che gli indirizzò si autodefinì “la donna più cattiva che sia mai nata”, non certo un’ammissione rassicurante. Su questo punto, stranamente, Strindberg arrivò a concordare con Harriet. Nel suo diario annotò: «È l’essere più cattivo e più meschino che io abbia mai conosciuto e, in un certo senso, il più stupido e il più brutto, ma talvolta anche l’opposto di tutto questo. […] Tornato a casa sento il sapore di lei in bocca: un sapore di perfidia primordiale, di odio, di stregoneria, un sapore di ottone e di cadavere che viene dall’inferno». Ma Strindberg non era certo un testimone attendibile, poiché, oltre a essere parte in causa e perciò necessariamente fazioso, aveva il patologico difetto di distorcere la realtà e ritenere vero il frutto dei suoi vaneggiamenti. Non si può sapere dunque se l’autocritica di Harriet fosse in qualche modo veritiera o soltanto un’iperbole con cui far colpo sul celebre drammaturgo, la cattiveria infatti, cioè l’attitudine a ferire, offendere, mortificare e umiliare, si rivela, più che nelle grandi azioni, nei piccoli atti che nascono e muoiono nell’insignificanza della vita quotidiana, dei quali però non resta traccia alcuna in una biografia. Tuttavia, se non si può dare per assodata la presunta cattiveria di Harriet, ci si può invece pronunciare con assoluta certezza sulle marcate alterazioni della psiche di Strindberg, poiché innumerevoli fonti, prime fra tutte alcuni suoi scritti, ne attestano la grave e sorprendente sconclusionatezza.

Come detto, egli conobbe Harriet nel maggio del 1900. A quel tempo era già ritenuto il più grande romanziere e drammaturgo di Svezia. Si era già sposato due volte, aveva già avuto tre figli, aveva già conosciuto a Parigi, a Berlino, altrove, alcune tra le personalità più in vista del panorama artistico europeo, Munch ad esempio; aveva già avuto modo di patire in se stesso e infliggere a chi gli stava intorno gli effetti delle proprie acute tare: la gelosia, la mania di persecuzione, la volubilità, l’iracondia, la sospettosità, le tendenze suicide, la propensione all’isolamento, il cupo esoterismo e mille piccole fissazioni. Che il rapporto tra un uomo così eterogeneo e una giovane donna poco più che ventenne – a detta di Strindberg di una bellezza sovrannaturale – fosse poco bilanciato e destinato al fallimento era dunque prevedibile. Sta di fatto che dopo una breve fase di corteggiamento i due innamorati si fidanzarono e il 6 maggio del 1901 celebrarono le nozze. Nelle pagine del diario di Strindberg relative a questo periodo di affinità nascente, cominciano già ad apparire tuttavia, insieme ai pensieri tipici di un innamorato, annotazioni strampalate a cui si stenta a credere e che rasentano la follia: dice ad esempio di sentire, a causa di un qualche oscuro influsso di Harriet, odore di sedano e di incenso dappertutto; sostiene e ribadisce più e più volte che lei lo visiti di notte, che gli imponga la sua presenza, che abbiano rapporti onirici, che vivano uniti telepaticamente… Ma, nonostante queste sue bizzarre convinzioni, il rapporto “reale” tra lui ed Harriet continuò a procedere normalmente.

Una volta sposatisi, andarono ad abitare nella cosiddetta Casa Rossa, scrupolosamente arredata da Strindberg in persona affinché ospitasse adeguatamente la loro felicità. Se nei primi mesi le cose andarono come i novelli sposi si auguravano, presto mutarono in peggio. Il primo vero intoppo nacque a proposito delle vacanze estive, già predisposte e organizzate da Strindberg, ma da lui stesso all’ultimo istante disattese poiché, disse, glielo ordinavano le Potenze Celesti. Harriet, furibonda, dovette partire da sola… Strindberg tuttavia la raggiunse soltanto una settimana dopo: ossessionato dalla gelosia, fu costretto a ravvedersi. Tornati a Stoccolma, scoprirono che Harriet aspettava un bambino. Dopo una passeggera felicità si ripresentarono le divergenze quotidiane, le liti, le scenate, le urla, la rabbia, dovute soprattutto alla condotta rigida, possessiva e asfissiante di Strindberg. Nonostante fossero passati soltanto pochi mesi dal giorno del matrimonio, Harriet aveva ormai capito con chi aveva a che fare, del resto la familiarità e la convivenza mettono sempre a nudo l’anima di chi si ha di fronte, spettacolo spesso sgradevole. Arrivò a sostenere di non essere disposta a dare il cognome del marito al bambino che sarebbe nato, facendo nascere in lui l’intollerabile dubbio che non fosse suo. Impietosa, gli disse che la sua persona le ripugnava, che avrebbe voluto dormire da sola, che non sopportava la sua vista: «Lei appartiene alle tenebre degli inferi», commentò Strindberg nel suo diario. Un giorno, il 22 agosto, Harriet non tornò a casa: gli fece recapitare un biglietto con il quale comunicava di essere partita per sempre. Strindberg cadde nella disperazione più profonda. Il 23 agosto annotò: «Solo, triste. Ho pianto molto», il 24: «Solo. Stamattina crisi di pianto», il 25: «Solo. Ho pianto molto», il 26: «Ho pianto tutto il giorno», il 29: «Orrendo!», il 31: «Altrettanto orrendo. Tante lacrime», il primo settembre: «Vivere è intollerabile, da solo», il 5: «Terribile!», il 6: «Per la prima volta in questi ultimi anni affiora l’idea del suicidio». Visse giorni terrificanti il grande e vulnerabile scrittore, scrivendo ad Harriet lettere imploranti e rigirando ora dopo ora nella sua mente stravolta il pensiero di darsi la morte. La sofferenza, la gelosia, le paranoie e l’impotenza lo schiacciavano, ma alla fine non si suicidò. Cioran d’altronde affermò, con la consueta arguzia, che lui, senza l’idea del suicidio, si sarebbe senz’altro suicidato, dato che, non avendo la possibilità di uscire dalla vita, questa gli sarebbe stata insopportabile. Chissà che anche Strindberg non abbia beneficiato di tale apparente sofisma... ammesso che i suoi non fossero altro che tardivi e innocui empiti adolescenziali. Harriet tornò a casa in ottobre, con momentaneo sollievo di Strindberg, ma ormai la relazione aveva preso una brutta piega. Nacque la bambina. Con il corredo di alterchi e litigi furenti che accompagnava ogni loro divergenza, nell’estate del 1902 si ripeté quanto avvenuto un anno prima: Strindberg non partì per le vacanze con la moglie e restò da solo in Svezia. In seguito si alternarono brevi intervalli di riconciliazione a frequenti momenti di accuse, violenza verbale, odio, fino a che non cominciò a farsi strada nella mente di Harriet l’idea del divorzio: nei mesi estivi del 1903, decise di abbandonare definitivamente la Casa Rossa e di inoltrare la domanda di separazione, una tragedia per Strindberg, non priva però di un recondito sollievo. I due tuttavia continuarono a vedersi, a dire il vero con più serenità rispetto al passato, dovuta presumibilmente alla presenza della bambina, che addolciva le loro naturali asperità, e al fatto che vivevano separati, in abitazioni diverse. Continuarono a vedersi con una certa assiduità anche dopo il divorzio, che fu formalizzato nell’autunno del 1904, e fino al 1908, anno in cui Harriet contrasse nuove nozze, si frequentarono con regolarità. 

Nel corso del tempo le reazioni di Strindberg agli altalenanti avvenimenti interni alla coppia restarono costantemente problematiche. Egli soffrì indicibilmente, in un modo involuto, ma il dolore, che solitamente redime, su di lui non ebbe effetti catartici. Mentre Harriet aveva dalla sua parte l’età, la freschezza, la vitalità, la socievolezza e la bellezza, Strindberg non aveva nulla, se non la scrittura e i suoi pensieri tetri. Attraversando fasi di parossismo e fasi più rilassate, continuò ad essere perseguitato dagli odori di sedano e di incenso, ai quali più tardi si aggiunsero il profumo e il sapore, in bocca, di rosa, enigmatiche manifestazioni di Harriet. Continuò ad avere costanti e cupi presentimenti relativi a lei, continuò a ricevere le sue immaginarie visite notturne e continuò a mantenere con il suo fantasma un intenso rapporto fisico. Ogni accadimento, un oggetto caduto, una carrozza che lo sfiorava, un piccione sul davanzale, il suono del cucù del vicino, lo inducevano a chiedersi: «Che significa?», come se tutti gli eventi della realtà si verificassero in funzione della sua vicenda personale e avessero un significato occulto, interpretando il quale, da vero monomaniaco, Strindberg concludeva che Harriet lo amasse ancora, che lo odiasse, che lo pensasse, che fosse in compagnia di altri, che soffrisse, che fosse felice. Se aveva un fastidio allo stomaco, se sentiva un ingombro nel petto, se aveva le palpitazioni, Harriet ne era per qualche ragione la causa diretta. Come tutti gli amanti alle prese con una persona mutevole e noncurante, passava continuamente dall’amore all’odio, dall’attrazione alla repulsione. Beveva, temeva catastrofi imminenti, stando seduto sulla sua poltrona si sentiva tangibilmente odiato dal mondo. Quando, nella primavera del 1908, seppe che Harriet si era fidanzata con un attore e che si sarebbero sposati, si presentò da lei e le fece una seconda arbitraria dichiarazione di matrimonio, identica a quella fattale sette anni prima: «Vuoi avere un bambino da me, Harriet?», illuso dal “fatto” che ogni notte andasse a fargli astrattamente visita e che, durante queste visite, fosse molto prodiga con lui. Ne dedusse che Harriet fosse due persone distinte, quella che agiva nel mondo, si fidanzava e voleva nuovamente sposarsi, e quella che lo svegliava di notte e restava telepaticamente abbracciata a lui nel suo letto: «Lei deve essere costituita da due persone, indipendenti l’una dall’altra e che si ignorano reciprocamente». La notizia del prossimo matrimonio di Harriet (che neppure due anni dopo divorziò dal marito, il quale in seguito si suicidò; Harriet scomparve nel1961), lo sconvolse. Sprofondò nella sua degenerata soggettività e da lì, come al solito, prese a interpretare i fatti e le proprie sensazioni con una illogicità agghiacciante, come del resto dimostrano le pagine coeve del suo diario, le quali rappresentano un vero e proprio abisso di irragionevolezza, tanto tristemente insensato da lasciare allibiti. Era esasperato, sfibrato, nauseato da tutto, pregava ogni giorno Dio di farlo morire: «Solo la sofferenza e la morte possono liberarci», scrisse. Cosa che avvenne a Stoccolma, nel 1912.

Benché oggi il suo nome sia poco citato, Strindberg è stato uno scrittore vero, la sua opera è un monolite nella storia della letteratura. Molto prolifico, ha scritto di tutto, saggi, drammi, romanzi, racconti, confessioni diaristiche, e nel farlo ha variato costantemente il suo stile e la sua tecnica narrativa, ha cercato linguaggi sempre nuovi e migliori, ha sperimentato, ha assecondato e spesso preceduto i tempi mettendosi di volta in volta in discussione. È stato un uomo che ha letteralmente vissuto per la scrittura… ma una vita è fatta anche di altro. In una delle ultime pagine del diario scrisse queste parole: «Dopo sessant’anni di torture prego Dio di poter lasciare questa vita. La poca gioia che vi ho trovato è stata illusoria o falsa. L’unica cosa è stata il lavoro. Ma in parte andava sprecato: o era inutile o era dannoso. Moglie, figli, focolare, tutto falso! L’unica cosa che mi abbia dato l’illusione della felicità è stato il vino. Per questo ho bevuto. Il vino alleviava persino il dolore di vivere». Di tutto quello di cui si componeva la sua esistenza, salvò il lavoro e l’ebbrezza, ovvero quei brevi intervalli di serenità nei quali un uomo può dimenticare se stesso e rapportarsi al mondo credendosi esente dall’amarezza e dal fallimento. Ma condannò, senza appello, tutto il resto.

 

 

03-05-2020 | 22:04