In mezzo scorre il Fiume

C'era già pronto in tavola quando il violinista Ermanno Marchesi mise i piedi in casa a Parma. Aveva telegrafato l'orario del treno e sua madre si era data subito da fare. Al suo giovanotto gli preparò i tagliatelli in brodo e il manzo con le salse. Ermanno fece pulizia in pochi bocconi, poi si addormentò, dormì finalmente nel suo letto, dopo le notti trascorse in giro tra il novembre 1920 e la primavera del ‘21, su e giù per l’Italia, Stati Uniti e Canada, suonando quasi ogni giorno nell'orchestra diretta da un grande maestro, anche lui di Parma, che a cinquantatré anni era ancora un demonio di energia, uno “sbarazzino satanasso” come lo chiamavano da ragazzo: Arturo Toscanini. In tre mesi e mezzo sessantotto concerti oltremare, trentasei in diciannove città italiane, tra le quali Fiume (la vecchia Rijeka dalmata, ora italiana per modo di dire), governata dai legionari di Gabriele D'Annunzio.

La questione fiumana era un’ingiusta eredità della Conferenza della Pace, aperta a Parigi nel gennaio del '19, dove a qualche mese dalla fine della Guerra Mondiale le grandi potenze vincitrici dell'Intesa, non ebbero alcun riguardo per gli alleati ‘minori’, come l’Italia con le sue disgrazie - circa 1.200.000 vittime tra soldati e civili - oltre 500.000 invalidi - e gravata di numerosi debiti: all'incirca 157 miliardi il costo della guerra, quasi 24 miliardi di lire oro i debiti con l'Inghilterra e gli Stati Uniti. In tale condizione di inferiorità, come è noto, ottenne il Trentino, la Venezia Giulia, l'Alto Adige, le isole del Dodecaneso e la Dalmazia, tranne le italianissime Spalato e Fiume. In effetti si trattava di risolvere un problema di non facile soluzione, in quanto se le coste dalmate avevano in prevalenza tradizione e cultura italiane, il retroterra rimaneva, senza alcuna eccezione, slavo.

Ma più delle ragioni di politica internazionale, suscitarono il nostro profondo disgusto i metodi intransigenti, e perciò l'incomprensione, assunti dall'Intesa, verso la piccola nazione dissanguata. Incomprensione che in special modo si riscontrò nel comportamento del presidente americano Wilson e che, in Italia, anche uomini di sincera fede democratica come Gaetano Salvemini, ebbero a condannare. I fantasmi dei caduti e l'amarezza di una vittoria, pagata come una sconfitta, turbavano il giudizio anche dei più generosi e saggi. Inoltre il Paese, in ginocchio per le crescenti difficoltà economiche, veniva assalito da una violenta carica di scioperi, proteste e tumulti.

Su questo sfondo intricato, a Fiume, il colpo di scena. La mattina del 12 settembre 1919, D'Annunzio, in divisa di tenente colonnello dei Lancieri di Novara, alla testa di circa 2.500 uomini, accolti da manifestazioni di entusiasmo (una buona dose di montatura), occupava la città contesa. Nei due giorni successivi le guarnigioni italiane, francesi e angloamericane, che avrebbero dovuto garantire la difesa della piazza, si ritirarono senza colpo ferire. Ma non era una improvvisazione. Alti gradi dell’esercito regolare italiano appoggiavano D'Annunzio e confidavano di far leva sul carisma dell'Immaginifico, nella speranza di rovesciare il governo Nitti e instaurare un potere di destra, se non una dittatura militare.

Nitti aveva trascurato di vigilare a suo tempo sui movimenti di D'Annunzio. Da qualche mese il poeta andava orchestrando la spedizione e teneva discorsi di palese ispirazione neointerventista, se così possiamo chiamarli. A Roma il 5 maggio aveva parlato alla folla in Campidoglio, con oratoria teatrale, inequivocabile nell'intento. Rievocando infatti il sacrificio del maggiore Giovanni Randaccio, comandante dei “Lupi di Toscana”, caduto eroicamente nella battaglia del Timavo, aveva concluso, con un volo pindarico, incitando a “ricordarsi e diffidare”, a mettere il lutto sulla bandiera “finché la Dalmazia non sia nostra”. Il presidente del consiglio telegrafò al comandante dell'VIII armata di stanza nella Venezia Giulia perché Fiume fosse isolata e al “poeta soldato” si comunicasse un esemplare ultimatum.

La situazione nel Quarnaro stava ormai precipitando e D'Annunzio invitava Toscanini e i suoi, sapendo di giocare una buona carta. “Mio caro Maestro, mio grande amico, venga a Fiume d'Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo. L'anima del popolo è sinfoniale come la Sua Orchestra”.

E il pomeriggio del 20 novembre 1920 l'orchestra arrivò, in treno speciale con vagone-bagagliaio zeppo di doni per i legionari. Nel ricevimento al palazzo della Reggenza D'Annunzio pronunciò un discorso in cui (passando al cameratesco tu) non nascose la gravità del momento: “Siamo soli contro un vasto coro di ammonitori e di minacciatori remunerato. O mio Maestro, è bello che tu venga di laggiù sdegnosamente e arditamente, e italianissimamente crollando le spalle alle ammonizioni sospette. È bello che in Fiume non domabile tu venga a sollevare il nostro coraggioso dolore su le più alte onde dell'oceano sinfonico”.

Seguiva un grande concerto dell’Orchestra al Teatro Verdi. Salutata da ovazioni interminabili la Quinta di Beethoven. Toscanini stesso ebbe a definire l’esecuzione un saggio di bravura mai raggiunto dai suoi “ragazzi“. Alla bettola dell'Ornitorinco, il Maestro entusiasta bevendo “sangue morlacco”, intonò con amici e professori d'orchestra l'Inno di Mameli e altri canti patriottici, tollerando le inevitabili stonature. La mattina seguente D'Annunzio diede a sua volta spettacolo: una “festa guerresca” in un campo di Cantrida, un'esercitazione con sparatorie e lancio di bombe a mano, niente affatto innocua. Diversi legionari vennero raggiunti da schegge, un professore dell'orchestra ne prese una di striscio al viso e lo stesso cappelluccio di Toscanini ebbe un colpetto. Il Comandante si fece di nuovo sentire, fra urla di giubilo dei legionari, tessendo l'elogio del Sinfoniaco, e di sé stesso... “Guardatelo. È della vostra razza, scarnito come voi. La sua testa è intagliata nell'osso duro, tra mento e fronte, con quei profondi incavi che gli si formano tra orecchio e naso quando serra labbra e mascelle, con quel cipiglio che fa pensare alla guardatura selvaggia del cigno sotto il rigonfio del rostro, con quel collo che l'energia dilata come per riempirglielo di comandi inespressi… Guardatelo. Guardategli la mano che tiene lo scettro. Il suo scettro è una bacchetta leggera come una verga di sambuco; e solleva i grandi flutti dell'orchestra, sprigiona i grandi torrenti dell'armonia, apre le cataratte della grande fiumana, scava le forze dal profondo e le rapisce al sommo, frena i tumulti e li riduce in sussurri, fa la luce e l'ombra, fa il sereno e la tempesta, fa il lutto e il giubilo… Chi è dunque? È un Capo, come io sono un Capo, o mia gente. Mi basta un gesto per scagliare d'un tratto i miei battaglioni contro il pessimo degli ostacoli. Mi basta un gesto per prendervi di peso tutti e trasportarvi dove il coraggio umano non è giunto mai. Mi basta un gesto per scoccarvi tutti, urlanti o mùtoli, di là dal prodigio e di là dalla morte”.

Ogni orchestrale ebbe la medaglia di bronzo, col motto “Hic manebimus optime”, e un programma del concerto con firme congiunte, di D’Annunzio e Toscanini. Il Maestro fu decorato con medaglia d'oro. D'Annunzio li esortò a portare le decorazioni durante la tournée. “Queste decorazioni” scrive Nuccio Fiorda, batterista e memorialista dell'orchestra “furono spesso oggetto di curiosità da parte del pubblico e di polemiche da parte della stampa estera, specie la decorazione d'oro di Toscanini, che brillava sul frac come una stella”. Le insegne al valore furono una caratteristica della tournée, specie quella personale, incisa da Bistolfi, col nome del professore e la firma di Toscanini. Sul verso la testa di lui, “intagliata nell'osso duro”, per dirla con D'Annunzio.

I due protagonisti dell'eccezionale appuntamento si scambiarono reciproci telegrammi di solidarietà. D'Annunzio definì l'esecuzione un “dono divino” e chiamò Toscanini “mio caro e grande fratello”, da parte del quale la risposta non fu meno vibrante: “Comandante Gabriele D'Annunzio, niente io conosco che eguagli l'armonia della tua parola fascinatrice, l'energia della tua opera vittoriosa. Con devoto cuore riconoscente d'italiano e di artista, auguro che i tuoi voti siano compiuti. Per l'Italia bella, per l'Italia grande, per il suo più nobile figlio, per i suoi valorosi compagni, eja, eja, eja, alalà!”…

Smentendo gli auguri e l'alalazo (ripescato da D'Annunzio), i legionari di lì a poco evacueranno. La reggenza del Quarnaro, sostenuta in un primo tempo anche dalla massoneria e da una parte del Capitale, aveva perso quota a causa delle sempre maggiori complicazioni interne e internazionali, non ultima la virata del Comandante, che aveva assunto velleità rivoluzionarie. Non era certo facile per lui sostenere la “Buona Causa”, come la chiamava, sua personalità, in modo particolare l'oratoria con la quale incatenava la folla: “Io dovevo rispondere alla sua angoscia, dovevo esaltare la sua speranza, dovevo rendere sempre più cieca la sua dedizione, sempre più rovente il suo amore a me, a me solo. E questo con la mia presenza, con la mia voce, col mio gesto, con la mia faccia pallida, col mio sguardo di guercio. O misterioso contrappunto!”, annotava nei Taccuini. E concludeva descrivendosi nell'atto di uscire dalle quinte... “Una forza non più contenibile mi saliva allora al sommo del petto, mi anelava nella gola... Con un passo violento come lo scatto della balestra andavo alla ringhiera. Andavo ad bestias? ad animos? Sì, al popolo”.

Comportamento e considerazioni che rispecchiano uno stato d'animo molto simile a quello di Toscanini. Un giorno, richiesto del perché al momento di attaccare, rifletteva un attimo con la bacchetta puntata alla fronte e poi di scatto iniziava a dirigere, spiegherà che in quei brevi istanti il pezzo gli appariva alla mente tutto intero, dal principio alla fine, e che nell'impossibilità di trattenerlo, doveva scaricarlo quanto prima nell'energia del gesto, la stessa che D'Annunzio traduceva nella parola. Ed era infatti la parola quella che aveva conquistato Toscanini, la prima qualità nominata nel suo telegramma di risposta. Perciò l'operazione Fiume viene ad assumere in questa ottica un doppio significato. Toscanini aveva accolto l'invito di D'Annunzio tenendo conto, non v'è dubbio, della grossa popolarità che ne avrebbe ricavato, appunto nei giorni in cui l'orchestra decollava. D'Annunzio impersonava ormai un mito del nazionalismo e accostarsi a lui significava confermare l'autenticità di un patriottismo ancora caldo. Il concerto di Fiume venne infatti ampiamente commentato dalla stampa e il Popolo d'Italia pubblicò integralmente le due orazioni di D'Annunzio.

Ma il momento non era proprio dei più favorevoli al poeta-soldato, e il gesto di Toscanini può giudicarsi di sfida. Come sempre agiva d’impulso, per istinto, meno per calcolo, guidato dall'ammirazione. Tuttavia i rapporti fra i due erano destinati a guastarsi. Causa, l’avvicinamento (anche se cauto) del vate Gabriele al fascismo negatore della Libertà, l’intoccabile virtù che Toscanini metteva sugli altari…

E intanto pochi mesi dopo nel teatrino del nord-est d’Italia, addio! Fiume, che abbassava il sipario per volontà internazionali e tornava a chiamarsi Rijeka... I legionari costretti ad andarsene… Addio! O favola bella che ieri t’illuse, che oggi t’illude, Gabriele…

 

 

22-09-2020 | 18:00