Il Vangelo secondo Alajmo

Massimiliano Alajmo è il cuoco perfetto. Un cocktail mozartiano di puntigliosità e divertimento, spiritualità e leggerezza, tecnica, virtuosismo e scherzo. Giacché le cose profonde, ammoniva Hugo Von Hoffmansthal, vanno sempre nascoste in superficie. A nessuno come lui si attaglia la definizione di cuoco ludens, nella complessità sorridente delle sue sfaccettature. Quelle che dettarono a Schiller le fantasie visionarie della XXVII lettera sull’educazione estetica. Dove il gioco è la chiave di volta dell’esperienza estetica, quindi della libertà e della creazione, e perfino di una redenzione collettiva, nella porosità che riassorbe i contrasti dell’esistenza quotidiana: “Annullare il tempo nel tempo, unire il divenire con l’essere assoluto, il mutamento con l’identità”, la sensibilità con lo spirito, la bellezza dolce e quella energica sono le sue missioni.

Solo quando gioca un cuoco è veramente tale - si potrebbe allora parafrasare il poeta. E Massimiliano lo è in sommo grado. Vedendolo chino sui suoi piatti, lui così allampanato, gentile, serio, tanto silenzioso nei gesti quanto loquace nel motivare ogni passaggio, si fatica un po’ a riconoscere il monello in azione; eppure è scatenato sotto i nostri occhi, dentro la cucina tecnologica del suo tre stelle, nella concentrazione spasmodica del coup-de-feu. Alle prese con i pestelli impiastricciati del Gioccolato (signature dish soggetto a un tagliando annuale, quasi una dichiarazione di poetica), con le dita in pasta per riscoprire la naïveté della gola o lo spruzzatore in bocca a propiziare effetti sorpresa. Oppure mentre deforma le ortodossie per il tramite di un calembour, che squarcia la lingua scritta insieme a quella cucinata. Stramberie che trovano sempre un contrappeso iper-riflessivo nella progettazione organolettica della portata.

Il mood, neanche a dirlo, ha preso piede nell’infanzia, quando lui e il fratello Raffaele, suo alter ego di sala e di cantina, tiravano sotto le stufe il grembiule di mamma Rita Chimetto, grande cuoca e antesignana del cake design, la prima della dinastia Alajmo ad avere staccato una stella Michelin nel 1992. E si è consolidato prima all’Alberghiero di Abano Terme, poi al fianco di Alfredo Chiocchetti a Moena, Marc Veyrat e Michel Guérard in Francia (da cui è fuggito come un novello Rocambole con la complicità del solito Raffaele). Esperienze che non hanno slabbrato la sua stoffa di solista geniale, troppo oltre per restare impigliato nelle vischiosità di qualsivoglia accademia. Poggiando sulla sua toque i massimi allori quando i compagni di scuola sudavano ancora nelle vesti di commis, puer aeternus della cucina italiana.

Il risultato è un capolavoro di armonia, che non conosce troppi paragoni nel mondo. La “bellezza dolce” di un gusto accattivante sposata alla “bellezza energica” della ricerca perpetua, secondo il succitato dettato schilleriano. Perché la cucina delle Calandre è l’apoteosi dell’equilibrio, della piacevolezza e del “buono”, ma non conosce requie o pigrizie di sorta. Già a inizio millennio un prepensionamento della neonata avanguardia, di cui pure tesaurizza il rigore tecnico e la gittata ambiziosa.

Dell’istinto ludico Massimiliano enfatizza la gratuità dell’assenza di scopo, ovvero la libertà. Che è creatività, ma soprattutto interazione con la creatività della natura quale partner privilegiato. Perché il leone ruggendo gode del dispendio senza scopo della sua forza rigogliosa come l’insetto si inebria di volteggi. “Anche nella natura inanimata si manifesta un tale lusso di forze e una larghezza di determinazione, che in quel senso materiale potrebbe benissimo chiamarsi gioco. L’albero produce innumerevoli gemme che muoiono senza svilupparsi e sparge molte più radici, rami e foglie in cerca di nutrimento di quanto venga richiesto per la conservazione del suo individuo e della sua specie… Così la natura ci dà già nel suo regno materiale un preludio dell’infinito e scioglie già in parte qui i vincoli da cui si libera completamente nel regno della forma. Dalla pressione del bisogno e dalla serietà fisica essa passa attraverso la costrizione dell’esuberanza, ossia il ‘gioco fisico’, al gioco estetico”. Una dépense che anticipa Bataille e che alle Calandre significa pathos del prodotto.

Ma la cucina di Massimiliano conosce anche accenti religiosi, profondamente cristiani, perfino esoterici e per nulla posticci. Quelli che in filigrana gli fanno intravvedere la scena sacra della resurrezione nelle più banali manovre culinarie (“Leggendo il Vangelo ho riflettuto su questo: il cibo per potere subire una metamorfosi deve passare attraverso la morte. Nel momento in cui lo vivi, lo mangi, è come se resuscitasse. Ciò che diventa era”, ha dichiarato a Raethia Corsini), o scomodare l’alchimista Paracelso di fronte alla miracolosa transustanziazione di un baccalà mantecato, tuttora eseguito secondo la ricetta del nonno cuoco. Perle visionarie che finiscono quotidianamente in pasto agli aficionados della casa, in piena coerenza con la giocosità che dicevamo, se è vero che Matteo scriveva: “Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli”. E la cucina di Massimiliano vi è entrata.

A proposito dell’incurvamento temporale che ispira il motto della casa, infine, “ciò che diventa era”, omaggio non troppo nascosto alla genealogia made in mater, le intuizioni culinarie spiazzano la linearità del tempo nel vorticare delle segnaletiche impazzite. La verticalizzazione del risotto (per la prima volta composto di strati sovrapposti a mo’ di carota geologica) come la pasticceria e le salse all’acqua vivono su un’isola oceanica denominata Calandre. Dove ogni momento contiene le tracce dell’istante precedente e i segni del battito a seguire, e la premonizione dell’ignoto cova il calore di un ricordo destinato a passare e ripassare dal cuore.

By Alessandra Meldolesi

27-12-2013 | 11:20