Ecco chi vinse il primo David

In questi giorni, grazie anche – e soprattutto – ai social e forse ad un bisogno estremo di distrazioni degne, il premio David di Donatello ha conosciuto un nuovo splendore. Se ne chiacchiera un po’ ovunque, in modo più o meno interessante, soprattutto perché, oltre al vincitore (“Perfetti sconosciuti”), il film che lo ha sbancato ha avuto un enorme successo sul pubblico che più usufruisce del nuovo tam tam virtuale. Ed è proprio pensando in particolar modo ai riconoscimenti, di pubblico e critica, ricevuti da un film come “Lo chiamavano Jeeg Robot”,  facciamo un salto indietro nel tempo, quando a vincere tutto e tanto fu il film di Elio Petri “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”.

Non vinse solo il David (che era alla sua prima edizione) ma travolse il pubblico a Cannes e addirittura agli Oscar, dove si aggiudicò il podio di miglior film straniero.

Senza entrare nel merito delle pellicole che si sono distinte quest’anno, tra l’altro notevoli sotto molteplici aspetti, riguardare il film di Petri potrebbe servire a molti.

Oltre ad essere un magnifico capitolo del nostro cinema, con un Gian Maria Volonté strepitoso, immergersi nell’utero dal quale vien fuori potrebbe suggerire non poche riflessioni sul da dove veniamo e sul dove stiamo andando, in Italia.

Correva l’anno 1970. Il protagonista della nostra storia è un uomo del sud, all’apice della sua scalata professionale nella Polizia di Stato proprio mentre l’autorità – come comunemente intesa sino ad allora – iniziava ad essere il bersaglio fisso della protesta sociale.

Un dinosauro bambino, aggressivo e contemporaneamente terrorizzato dal caos che avanzava e sovvertiva l’ordine sul quale lui credeva di aver messo, finalmente, solide radici.

Sin dalle prime scene capiamo di essere davanti a un lavoro di gran classe, mentre la musica di Morricone risparmia parecchie parole – romanesche, magari – e scene e fotografia entrano orizzontali nella memoria, vissuta, raccontata o studiata che sia, come lame d’acciaio.

Volontè potrebbe tranquillamente essere allo stesso tempo su di un set di Polanski o tramutarsi in parola mobile fra le pagine di un romanzo di Moravia, senza perdere nemmeno un’inquadratura.

Il film è un paradosso grottesco dall’inizio alla fine. E dall’inizio alla fine questo paradosso impressiona violentemente, perché in qualche modo quasi tutti lo riconosciamo, ieri come oggi, seppur con vesti e accenti fisiologicamente mutati.

In una serie di flashback ben incasellati fra le scene delle indagini, assistiamo alla genesi di un omicidio compiuto proprio da chi poi lo dovrebbe indagare, ovvero dal poliziotto, ormai alto funzionario politico, che uccide la sua amante con la spocchia di chi ne ha il potere, senza paura delle conseguenze o forse proprio cercandole, per vedere chi vince.

Florinda Bolkan, bellissima e perfetta nel ruolo, incarna il cliché della donna lasciva, rivoluzionaria e borghese allo stesso tempo, alla ricerca di un uomo potente da sottomettere alla propria verde libertà.

Deride il suo amante, i suoi vestiti che “sanno di lucido da scarpe”, ne stuzzica la vanità invitandolo a fare la ruota, per poi spennargliela senza il riguardo che lui si aspetterebbe e per conquistare il quale ha lavorato tutta la vita.

E il nostro protagonista fa “click”. Non solo la uccide, ma guida le indagini creando indizi contro se stesso, in una danza macabra di rivelazioni e negazioni, coinvolgendo innocenti e facendoli fagocitare dalla macchina della colpa indotta dalla paura della persecuzione.

Petri ci porta nell’inferno di un uomo di potere che preferisce rendersi colpevole in una dinamica che conosce, piuttosto del dover davvero affrontare una rivoluzione culturale davanti alla quale è inerme per cultura e sentimenti. Inerme da solo, ma non con l’Istituzione, che individua immediatamente le falle della protesta e le squarcia. I suoi superiori sanno che i giovani rivoluzionari non ce la faranno perché “per fortuna sono divisi, se fossero uniti davvero sarebbe dura”.

Egli è una sorta di angelo caduto che ci mostra la follia del sistema, mentre si autodenuncia come colpevole pur di non restare sotto al ricatto di un giovane “sovversivo”  e invece poi viene costretto a confessare la propria falsa innocenza.

 “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”.

Con queste parole di Kafka si chiude il film ed i nostri stomaci con lui, oggi forse più di ieri, mentre i nuovi e ossessivi tam tam apparentemente tanto “social” ci dividono sempre di più e il potere ci fotte, regalando, nel nostro caso, illusioni di innocenza.

 

 

21-04-2016 | 08:27