Del vuoto e della felicità

Pietro Iannibelli

Schopenhauer sosteneva che la felicità è uno stato d’animo negativo, una condizione – come la salute e la libertà – della quale non ci si accorge quando è in atto, ma soltanto quando, all’apparire delle amarezze, la si perde. Si rimpiange allora il tempo in cui esse erano assenti e senza saperlo si era felici, con l’aggravio del senso di colpa di non aver avuto l’accortezza di capirlo. Per lo scostante filosofo, tale insolita condizione non è dunque qualcosa di intrinsecamente definito e dotato di immanenti qualità proprie, ma soltanto l’assenza del suo contrario, ovvero del dolore, la cui comparsa costituisce in sé la fine della felicità mentre, il suo svanire, l’inizio di essa. Si può concordare o meno con il pensatore che ha spiegato agli uomini le leggi segrete del mondo, ma ciò che qui interessa è sottolineare come nella cultura occidentale anche un altro concetto capitale abbia avuto in sorte lo stesso disconoscimento riservato da Schopenhauer alla felicità, benché, in questo caso, per effetto di ragioni sfuggenti di natura antropologica la cui origine si perde nella notte dei tempi. Si tratta del non-essere, del vuoto.

In Occidente infatti si è portati a pensare al vuoto soltanto in termini negativi, in quanto reciproco del pieno o mancanza di qualcosa, come se fosse esclusivamente la sterile manifestazione dell’assenza di ciò che non c’è. Dove qualcosa esiste non si trova il vuoto e dove si trova il vuoto non esiste niente, tutto qui, il concetto occidentale di vuoto si esaurisce in questa formula. È noto tuttavia che per gli orientali il vuoto non rappresenti semplicemente la mera trasposizione del nulla nell’esperienza, ma qualcosa di radicalmente differente. L’innata gentilezza percettiva con cui in quelle terre metafisiche gli uomini hanno osservato le cose del mondo e il loro inesauribile divenire, ha generato un concetto di vuoto del tutto scevro del materialismo che contraddistingue invece l’analogo concetto occidentale. Per essi il vuoto è qualcosa di concreto e reale, benché insostanziale, e ha la stessa dignità ontologica del pieno, unitamente al quale dà vita alla plurima diversificazione della realtà. È citatissimo il celebre passo del Libro della Via e della Virtù:

Con l’argilla bagnata si formano i recipienti,

ma è il vuoto che è in essi a consentire la pienezza.

Con il legno si costruiscono le case,

ma è il vuoto che è in esse a renderle abitabili.

C’è la parte visibile dell’utilità,

ma l’essenziale rimane nascosto.

Queste parole, risalenti a più di duemila anni fa, come tante altre contenute nei testi appartenenti alla stratificata tradizione mistico-religiosa taoista, buddista e zen, identificano il vuoto come un ente immateriale e gli riconoscono una funzione costitutiva, riservandogli il ruolo di generatore delle forme e di catalizzatore dei fenomeni, un ente grazie al quale ciò che esiste raggiunge la sua finalità e perviene alla sua compiutezza. Ciò deriva dalla convinzione che all’origine delle cose del mondo vi sia un’entità fondamentale primigenia caratterizzata dall’invisibilità e dall’inconsistenza posta al di là delle apparenze, dalla quale, in modo inaccessibile agli ignari mortali, traggono l’essere e la sussistenza gli elementi manifesti dell’universo. Secondo queste antiche tradizioni, la realtà, che si dispiega sotto lo sguardo limitato dell’uomo, non è altro che la concretizzazione di tale entità trascendentale che si sottrae a tutte le descrizioni («Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao»), la stessa che per esempio, mutatis mutandis, semplificando drasticamente, Kant designava con l’espressione “cosa in sé” e Schopenhauer con il nome “volontà”. 

Se questa nota non avesse lo scopo di rimanere su un piano generale, sarebbe certo interessante dilungarsi sull’argomento e indagare il modo in cui la significatività del vuoto abbia trovato e trovi ancora oggi applicazione nella quotidianità e nei diversi ambiti dell’espressività orientale, come per un altro verso sarebbe interessante ripercorrere la storia occidentale dell’idea di vuoto partendo dai pitagorici, passando Parmenide, Leucippo e Democrito, Aristotele, Lucrezio, Giovanni Filopono, Galilei e gli altri, sino a giungere all’età moderna. Storia caratterizzata per lo più da una concezione meramente fisica e scientifica del vuoto, in contrasto da questo punto di vista con quella orientale, che pone l’origine della sua preminenza al di là del mondo sensibile, benché poi nella consuetudine di tutti i giorni esso abbia acquisito una centralità cognitiva e pratica. Sarebbe inoltre altrettanto interessante approfondire una delle più sorprendenti conquiste della fisica contemporanea, la quale ravvisa nella vacua impalpabilità dei campi quantistici l’elemento fondamentale soggiacente a tutta la realtà, rinviando in qualche modo agli originari convincimenti della mistica orientale. Tuttavia, in questa sede, è forse più appropriato limitarsi a notare come anche nell’arte occidentale si sia invece talvolta inteso il vuoto o il non essere  – per effetto dell’influenza orientale? – come entità a tal punto feconde di possibilità da poter assurgere a sinonimo del tutto in potenza. Senza voler aspirare all’esaustività, ci si riferirà a due soli casi esemplari, ma è bene fare una precisazione. Le parola “vuoto” e la locuzione “non-essere” sono termini che rimandano a significati diversi, essi però sono così contigui e comunicanti da risultare talvolta inestricabili l’uno dall’altro e semanticamente sovrapponibili. Per la coerenza del discorso saranno dunque intesi, come del resto si è sin qui fatto, come espressioni intercambiabili.  

Nel 1969 Borges pubblicò una breve poesia in prosa, intitolata The unending gift, illuminante per quel che riguarda il tema in questione.

Un pittore ci aveva promesso un quadro.

Ora, in New England, ho saputo che è morto. Ho sentito, al pari di altre volte, la tristezza di comprendere che siamo come un sogno. Ho pensato all’uomo e al quadro perduti.

(Solo gli dei possono promettere, perché sono immortali).

Ho pensato a un luogo prefissato che la tela non occuperà.

Poi ho pensato: se stesse lì, sarebbe col tempo una cosa di più, una cosa, una delle vanità o abitudini della casa; ora è illimitata, incessante, capace di qualsiasi forma e colore e non costretta in alcuno.

Esiste, in qualche modo. Vivrà e crescerà come una musica e starà con me fino alla fine. Grazie, Jorge Larco.

(Anche gli uomini possono promettere, perché nella promessa c’è qualcosa di immortale).

Il testo riportato mostra esplicitamente come ciò che non c’è, oltre che essere una presenza ben individuata, sia infinitamente più prolifico di ciò che c’è (il quadro), poiché questo è condannato a essere se stesso e null’altro, a esaurirsi nella sua concreta singolarità, a significare quel che la sua forma univocamente lo costringe a significare, mentre quello, il non-essere, che è ciò che non c’è (il quadro assente), è caratterizzato dalla pluralità, dall’illimitata significatività e dalla potenzialità che gli deriva dal suo essere svincolato dall’inequivocabilità della materia.

Nel 1970 (precorrendo la famosa scatola di scarpe dell’artista messicano Orozco, presentata alla Biennale di Venezia nel 1993 e ora esposta al Moma), l’indefinibile e provocatorio Gino de Dominicis regalò a un’infante (la figlia di un amico gallerista), in occasione del suo primo compleanno, un misterioso scrigno metallico chiuso con un lucchetto, con la raccomandazione che venisse aperto soltanto al compimento del ventitreesimo anno della bambina, l’età di allora dell’artista. Nel 2016, quarantasei anni dopo, all’atto della sua apertura, che fu trasformata in un evento pubblico, si scoprì che il forziere non conteneva assolutamente nulla. La creatività di de Dominicis era del resto incline in quegli anni a lasciarsi ispirare, non senza ironia, dall’assenza. Aveva già infatti esposto sculture invisibili (cubi, cilindri, piramidi, esseri umani), e aveva fatto recapitare una di esse al domicilio di un suo collezionista, che ne richiedeva una, con un camion. 

De Dominicis, il quale sosteneva che le cose corruttibili non esistono davvero, donò il non-essere alla bambina e, almeno nei suoi piani, ventidue anni di attesa, forse di impazienza. È sorprendente il fatto che, ignorando il testo di Borges (fu pubblicato in Italia nel 1971), egli compì volontariamente il medesimo atto che il pittore argentino Jorge Larco compì involontariamente. Entrambi infatti regalarono il vuoto ai destinatari della loro attenzione, il più grande e cospicuo dono che si possa fare, un dono atemporale, non soggetto alla transitorietà e alla caducità delle cose terrene, contraddistinto da un’assoluta fertilità ipotetica, mutevole come gli stati d’animo contingenti di chi lo riceveva e lo avrebbe poi posseduto per il resto della vita. Borges e de Dominicis mettono perciò in evidenza quell’aspetto del vuoto che nella soffocante cultura occidentale ha storicamente stentato ad assumere valore ermeneutico, ma che in Oriente è sorto spontaneamente dall’osservazione partecipe della realtà. L’arte, del resto, è spesso rivelatrice di quei sensi riposti nell’animo umano che l’assuefazione alla cultura dominante tende ad eclissare, e in questo, nel suo favorire l’anamnesi platonica, risiede forse il suo più alto valore educativo.

Anche se, tornando al tema della felicità a cui si è accennato sopra, la vera, incommensurabile grandezza dell’arte consiste nel fatto che la sua intima contemplazione, la fruizione profonda di una qualsiasi delle sue forme, ha il magico potere di rapire la mente e condurla lontanissimo, in quella sospesa vacuità fluttuante dove i pensieri funesti che costantemente la assillano non potranno mai raggiungerla. In qualche modo, nei momenti propizi, essa combina straordinariamente la felicità, intesa come cessazione degli affanni, e il vuoto, inteso come trascendenza priva di relazioni con il mondo, e produce la loro benefica coesistenza nello spirito dell’uomo, divenuto impersonale.

 

 

23-03-2020 | 14:38