La morte di Nimrud è la morte della civiltà
Uno dei primi grandi viaggiatori nella nostra letteratura è stato Gilgameš, la cui Epopea è un testo antichissimo che ha probabilmente più di quattro millenni. Precede l’epica omerica, il Ṛgveda, le Upanishad e i grandi filosofi cinesi. Nella stessa zona in cui vennero ambientate le gesta del grande Gilgameš, della stessa storia millenaria fanno parte le statue e i siti archeologici che sta distruggendo l’Isis.
Quello che sta accadendo sfugge a qualsiasi aggettivo ed ha forse una furia maggiore di ciò che hanno cercato di fare i nazisti con le nostre opere d’arte. Perfino gli antichi romani, che fecero guerre come quella gallica di Cesare, in cui morirono centinaia di migliaia di uomini (come se ora ne morissero milioni in una campagna militare), lasciarono opere dei popoli invasi. I romani sapevano che l’arte sopravvive all’effimera vita umana – ars longa, vita brevis – e anche la loro pratica della damnatio memoriae colpiva solo un uomo politico del momento, la storia recente, non quella antica. Così ora possiamo ammirare un teatro sannita o delle statue etrusche, ma probabilmente non potremo più vedere le meraviglie dell’antica Mesopotamia, il luogo in cui realmente è nata la cultura, la civiltà.
Nimrud distrutta non lascia soltanto una grande rabbia, ma anche una profondissima tristezza, il sentimento tragico che si prova nel vedere una mancanza irreversibile.
Al termine del suo viaggio, molto più antico di quello di Ulisse, Gilgameš scrive la sua storia su una pietra, dandole così l’età dell’umanità e non la sua età di mortale: “Egli era saggio; vide misteri e conobbe cose segrete; un racconto ci portò dei giorni prima del Diluvio. Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; e quando ritornò, su una pietra l’intera storia incise”.
Il suo viaggio è una grande metafora della civiltà, della natura e della cultura umana, e rievoca la potenza e la sacralità della parola scritta sulla pietra, quando la medicina, la poesia, la scultura e tutte le arti erano ancora delle sorelle che vivevano insieme, se non erano, in molti casi, lo stesso corpo, lo stesso spirito. Così quando vediamo una ruspa devastare millenni d’arte, vediamo la parte più smemorata, la più ignorante del mondo, avventarsi sull’antichissimo e fragile corpo della parte forse non migliore, ma certamente più autentica della terra. Per ogni statua che si frantuma si cancella una grande parte della nostra letteratura ed è come se miliardi di neuroni di un ipotetico cervello universale, di una mente umana collettiva, venissero bruciati con la banale ed antichissima droga del fanatismo.
La pietra, che sia nuda, scolpita o incisa, racconta una storia arcaica, conosce i segreti di ogni esoterismo, ha visto il pianto e il riso di ogni essere umano, e chiunque la abbatte, chiunque la disprezza e la vuole buttare nel tritasassi del fanatismo, non fa parte della storia, non fa parte dei vivi, ma appartiene al dominio della morte.