Icone pop e fascino rétro
Un scintillante nome faraonico, un corpo sinuoso e peccaminoso, un vezzoso sguardo celestiale. È un ondulato mélange di allure angelicata e brame lascive Cléopâtre-Diane de Mérode (Parigi,1875-1966), in arte Cléo, danzatrice dell’Operá e delle Folies Bergère, divenuta prolifico fenomeno pop grazie a una languida fotogenia. Seppur soavemente pennellata da Henri de Toulouse-Lautrec in un lievissimo tutù o in una toilette color tortora da Giovanni Boldini, scalfisce però l’immaginario collettivo cristallizzata in memorabili scatti di Paul Nadar (figlio di Felix, il Tiziano della fotografia) e Léopold Reutlinger, con una garbata eleganza à la Cléo: capelli sciolti secondo il trend preraffaellita o coronati da diadema orientaleggiante o raccolti in uno chignon come le ballerine di Degas o à la Vierge, divisi in due bande laterali come le Madonne rinascimentali. E – un po’ proto top model inconsapevole, un po’ gadget di massa spalmato su scatole di latta – spande un sex appeal insieme ieratico e mansueto, forgiato da indelebili feticci visuali: un’impercettibile catenella vacillante sul petto sospiroso e un vitino da clessidra imbottigliato in abitini fascianti, come la venerata Liane de Pougy (1869-1950), regina delle cortigiane di rango.
Lesbo-chic è, invece, il sobrio look androgino dell’efebica Annemarie Schwarzenbach (Zurigo, 1908 – Sils im Engadin, 1942), scrittrice giornalista fotografa, spirito tormentato tra sbandi di alcool e morfina, anima errante tra Asia Africa America alla guida di una Mercedes-Benz Mannheim: biondo taglio à la garçonne, stivali e pantaloni alla zuava, tailleur mascolino e pull a collo alto, consunto fascino da neo-dandy e aria pallida e pensosa. La scandalosa amica di Erika e Klaus Mann (figli di Thomas) ammalia con inconsolabile ambiguità, melanconicamente effigiata, tra cravatte di seta e giacche di tweed, dalla collega Marianne Breslauer: gracile creatura in magnetico charme maschile, come la trasgressiva ma spavalda Marlene Dietrich (1901-1992).
Intrigante intraprendente intelligente è la maliarda Nancy Clare Cunard (Nevill Holt nel Leicestershire, 1896 - Parigi, 1965): musa di Aldous Huxley e Tristan Tzara (fondatore del Dadaismo); poetessa per la Hogarth Press (casa editrice dei coniugi Woolf); talent scout illuminato (fonda la Hour Press e pubblica Lewis Carroll ed Ezra Pound); anarchica attivista antirazzista e, ovviamente, anticonformista; nonché totem estetico osannato anche da Vogue UK nel 1926. Leggendaria performer della moda surrealistica in plastiche pose da pascià per l’obiettivo di Man Ray e Cecil Beaton (in alto: suo il ritratto degli anni ’30 con sfondo à pois), l’eclettica Cunard brevetta una mise unica ed eccentrica sull’aromatica scia del coevo esotismo in cui furoreggiano la Jazz Age e Joséphine Baker (1906-1975): cumuli di mega braccialetti d’ebano e avorio ad inanellare le braccia e maxi collane etniche a decorare il décolleté, copricapo piumati e turbanti tribali, tessuti animalier su fogge occidentali. Ed è african style con occhi bistrati e acconciatura imbrillantinata.
Sono tre delle sei pionieristiche divinità fashion accortamente celebrate da Stefania Muzzarelli, docente di Fotografia e cultura visuale presso l’Università di Bologna, nel saggio Moderne icone di moda. La costruzione fotografica del mito (Einaudi, pp. 244, illustrato, euro 28, foto in basso), corredato di un dettagliato apparato iconografico in bianco e nero d’immortali testimonial dall’indissolubile connubio esistenziale e professionale. E poi il total black maledetto di Charles Baudelaire, l’erotismo fiabesco di Vaslav Nijinskij, l’esibizionismo predatorio di Gabriele D’Annunzio. Ma queste sono voraci avventure virili.