Volevo una vita spericolata
Aveva una faccia alla Leonard Cohen, bella e vissuta. Dava l’impressione di mangiarsela la vita, in un sol boccone, interessato a tutto, basta che fosse creato dalle mani dell’uomo. E invece ieri Anthony Bourdain – famoso cuoco americano, scrittore e star televisiva – la vita se l’è tolta in un albergo di Strasburgo. Era nella città francese per registrare una puntata del suo ultimo programma televisivo, Parts Unknown, in onda sulla CNN.
62 anni da compiere a giugno Bourdain era un personaggio diverso dai soliti celebrity chef: scorretto, anarchico, spesso rude ma sempre dalla parte “della strada” e mai da quella delle stelle, capace persino di portare a pranzo Barack Obama in un bugigattolo, un piccolo ristorante familiare vietnamita. Aveva deciso di raccontare il mondo attraverso il cibo, i suoi programmi, così come i suoi libri, erano distillati antropologici più che guide gourmet. Controverso, contraddittorio – “perché sono vasto, contengo moltitudini” diceva Whitman – detestava sia chi mangiava troppa carne sia chi si professava vegano ortodosso, soprattutto in Occidente. Uno chef – questo era, prima di ogni altra cosa – graduato al Culinary Institute of America nel 1978, poi via a lavorare per i più prestigiosi ristoranti newyorkesi, fino a diventare executive chef della Brasserie Les Halles di Manhattan. Scriveva per il gotha del giornalismo internazionale: “New York Times”, “New Yorker”, “The Independent”, “Gourmet”, “Rolling Stone”. Il libro che lo ha reso celebre, Kitchen Confidential, raccontava gli orrori che accadono nelle cucine dei ristoranti americani, tra ideali traditi e rischi per la salute.
Tanti programmi tv, tanti articoli, tanti libri, tra questi, uscito in Italia per Feltrinelli, “Al sangue”, dove sosteneva che in cucina non si può mentire: “Una omelette o la sai fare o non la sai fare”, perché in cucina non c’è neanche Dio che ti può aiutare. E ancora: “Nessuna credenziale, nessuna cazzata, nessuna bella frase o nessuna supplica cambierà le cose. La cucina è l'ultimo baluardo della meritocrazia, un mondo di assoluti”. Quanta ignoranza, quanti luoghi comuni ha sbaragliato questo cuoco anticonformista: pane al pane, vino al vino, lui era così.
Un uomo famelico di vita, amava i tatuaggi, le moto, i viaggi, bere e mangiare, conoscere nuovi risvolti dell’umanesimo contemporaneo. Appariva attratto dalle storie sottaciute, dimenticate, minori. Corpo allampanato, sguardo da rockstar, quando nel 2016 venne a Roma per girare una puntata di un suo programma ecco l’incontro fatale con Asia Argento: subito innamorati, un grande amore, insieme per il mondo, con lo stesso sguardo rivelatore – solo qualche giorno fa lei ha firmato la regia della puntata di Part Unknown girata a Hong Kong. Quando Asia ha denunciato lo stupro subito da Harvey Weinstein lui ha alzato la voce, vicino alla donna che amava. Con le donne, contro i predatori, poche balle.
Sempre in direzione ostinata e contraria – sarebbe piaciuto a Erri De Luca – elogiava la risorsa che rappresentano gli immigrati clandestini in America, messicani, ecuadoriani, caraibici, che portano idee e braccia alla ristorazione yankee “più degli studenti bianchi e freschi di scuola professionale”.
Bourdain era uno dei pochi critici a non essere solo gourmant, ossia ad avere lo sguardo ristretto solo al piatto. Per questo lui parlava di “pasto” e non di “cibo”, perché l’esperienza del mangiare deve essere omnicomprensiva, dalle tovaglie alle persone intorno, non solo palato. Era un bon vivant, anche quando parlava di persone o di città la descrizione era molto simile alla grammatica gastronomica: sostantivi solidi, descrizioni visive, elenchi, linguaggio spiccio, a volte vernacolare. Le sue pagine correvano via veloci, ogni riga restituiva colore, odore e sapore, come un piatto.
“Mi uccido per non morire” lasciò scritto Gilles Deleuze prima di buttarsi dalla finestra. Bourdain non ha lasciato biglietti. Solo i muri di quella stanza d’albergo conserveranno la verità. E resteranno l’ultimo racconto non scritto di Anthony.