Vaffanculo amore mio

Piero Ciampi, nato per caso o destino nei paraggi della casa natale di Amedeo Modigliani, potrebbe essere definito con qualche forzatura speculativa l’anti De André. Tante le testimonianze postume, invero anche assai ruffiane e commerciali, del cantautore genovese, quanto scarse quelle del poeta (si, maledetto) di Livorno, relegato impietosamente ai margini del circuito musicale, nel sottoscala riservato ad ombrosi adoratori o a snob poco inclini a mettersi in coda per incensare la luminosa memoria del buon Faber. Piero il Livornese oscuro quindi, con tutte le caratteristiche che questa appartenenza marittima comporta e con il fardello dell’omonimia più incongruente e bizzarra, quella agli antipodi, per un anarchico com’era, del formalismo istituzionale: la firma “Carlo Azeglio” sulle mille lire e poi sui protocolli della Presidenza della Repubblica.  Per l’appunto da una città di cantine, bettole, canali e sotterfugi, il giovane Piero prende le mosse. Inizialmente verso la Parigi degli chansonnier, poi girovagando come in fuga da se stesso, in direzione oblio.

Il fascino del personaggio, non privo di una certa eleganza stropicciata e decadente, risiede principalmente nei testi inclassificabili, così distanti dall’impegno politico tipico dei cantautori anni ’60 così come dallo sterile melodramma sanremese; testi spietati o decisamente auto indulgenti, talvolta buffamente romantici, sovente collassati senza rimedio in un soliloquio, come a voler fare didattica musicata per vite allo sbando. Anche l’amore, trattato ruvidamente, diviene nelle parole sbiascicate di Ciampi amaro nettare da rigettare, medicina impietosa per disintossicati immaginari. Si pensi al capolavoro Adius, dichiarazione d’intenti affettivi spaccata in due, divisa tra il prologo zuccheroso, quasi parodistico  della confessione intimista e l’epilogo oltraggioso, caratterizzato da un reiterato, quanto sempre sorprendente all’ascolto, “ma vaffanculo!” all’amata indirizzato. In questa canzone c’è tutto Ciampi, la schizofrenica voglia di rivalsa di un auto emarginato, l’orgoglio inconcludente dell’avvinazzato. Altri titoli, quali Il giocatore, Te lo faccio vedere chi sono io e la relativamente popolare Il vino, tratteggiano con sarcasmo e disillusione le vicende di un’umanità perennemente insoddisfatta e consumata dagli eventi. Una umanità, in effetti, fin troppo autobiografica.

Piero Ciampi, con sommo scandalo dei più, spesso ubriaco anche in televisione, visse contraddittoriamente la fama effimera ed altalenante che lo colse. Spesso in difficoltà anche nella vita privata, fu aiutato da  amici musicisti ed interpreti – tra i quali Gino Paoli indefesso ammiratore, Nada, Ornella Vanoni – ma lui, incurante, fece della dissoluzione esistenziale e dell’irresponsabilità nei confronti del palinsesto uno stile di vita: cantautore dello sperpero, uomo in rovina, scialacquatore ed egoista si diede a vagabondaggi per vocazione alla sparizione. Forse perché nel fattibile non vi era più altra soluzione, forse perché anche la sconfitta va organizzata in posticipi. Periferico per insofferenza innata, può essere definito un Paolo Conte senza estetismi jazz oppure un precursore del Vasco Rossi esordiente e più alienato. Titolare da morto di un serioso premio alla memoria, senza reali vincitori ma soltanto tristi emuli, di Ciampi s’apprezza ancora oggi la rischiosa contiguità tra vita ed arte. Nella sua scrittura infatti è limitata al minimo la rappresentazione, il filtro allegorico che l’artista imbastisce tra sé ed il pubblico per abilità o mestiere, utile a riempire quel vuoto indispensabile alla commedia, quel dettaglio tutto teatrale fatto di artifici retorici. Sono, quelli, tutti stratagemmi per sopravvivere alla sincerità. Invece no, l’arte di Piero, similmente a quella calcistica di George Best, si sovrappone fino a confondersi con la realtà. Come se per combattere l’indifferenza del mondo quel cabaret del dolore così iperrealista s’inceppasse proprio sul più bello, per il godimento masochista di alienarsi l’applauso.

 

 

12-06-2015 | 16:51