Tarantino è nei dettagli

Gli oggetti sono utilissimi nel cinema; possono essere i migliori alleati di registi e scenografi che sappiano sceglierli e collocarli per farli parlare d'altro. Le modalità del loro impiego sono diverse e rispondono, come tutte le componenti di un film, al dominio dello stile. Nei vari Bond - ad esempio - ci sono oggetti essenziali che ricorrono immancabilmente (lo smoking, il Martini dry, l’ultima fuori-serie e l’ultima arma segreta) per ribadire ciò che già sappiamo di loro e di colui a cui appartengono; servono a confermare che il film e il protagonista sono proprio quelli, ma su chi sia Bond non dicono nulla che già non si sappia. Idem per il cappello, la pipa e il violino di Sherlock Holmes; sono appendici mobili del personaggio che non fanno che confermarcelo. Poi ci sono film in cui la scenografia tende a creare ambienti il più possibile verosimili in cui incorniciare la sequenza di azioni del film in cui ogni oggetto viene collocato secondo un’idea generale, con una funzione complementare ed anonima. Altro discorso vale per oggetti che fin dall’istante in cui appaiono sulla scena rapiscono la nostra attenzione, che non possiamo smettere di fissare. 

Esempi di ciò li si trova sovente nel cinema di Quentin Tarantino. Ad esempio in una scena secondaria di Kill Bill 2, in cui Budd (uno dei nemici della protagonista, sul quale si vendicherà) arriva al lavoro in ritardo e viene chiamato nell’ufficio di Larry (foto sotto), proprietario e manager di una specie di sala biliardo-nightclub sperduto in un deserto americano. L’ufficio è un trionfo di oggetti significativi, un esempio di pertinenza perfetta con l’ambiente in cui sono collocati, ma sono soprattutto indizi sul loro proprietario: uno specchio su cui si sniffa cocaina, depliant e riviste appoggiati disordinatamente, mazzette di denaro, una macchina conta soldi, una calcolatrice vintage, una grossa treccia d’aglio, qualche foto alla parete di momenti di tempo libero, un fucile a pompa, un gattone giocattolo giapponese con un sombrero in testa, una sveglia in plastica, un trofeo, un borsello pieno di soldi. Poi c’è Larry, qualche annetto oltre la cinquantina, tinto, tutto in jeans e maglietta nera; immobile in poltrona, con  lo sguardo fisso, scandisce a bassa voce la predica a Budd per l’ennesimo ritardo. Esistono film dalle scenografie sontuose, impeccabili, perfettamente filologiche, traboccanti di dettagli; il cinema di Kubrick, ad esempio: che dire delle scene di 2001 o di Arancia meccanica o di Barry Lyndon o di Eyes wide shut? Ma non c’è un oggetto che ci seduca, che ci costringa a guardarlo oltre i tempi necessari per inquadrarne lo scopo previsto dal film. Sono scene perfette, oggetti splendidamente assortiti tra loro, ma l’uniformità ingloba i singoli dettagli. In Tarantino troviamo numerosi oggetti parlanti, narranti, allusivi; oggetti che suggeriscono conoscenze dettagliate di profili psicologici attraverso percorsi secondari del senso ma con un potere esclamativo, che scavalca le vie ordinarie della narrazione. Come togliere gli occhi da quel caos organizzato della scrivania di Larry, da quel capolavoro di “realismo atmosferico” che riempie la stanza? Come non fissare lo sguardo sulla sua mano sinistra appoggiata sulla coscia, sulla divaricazione tra medio e anulare e sull’anello che indossa? Non si riesce a distogliere l'attenzione da quell'effetto combinato del fucile a pompa appoggiato serenamente al muro e dell'espressione idiota del gattone col sombrero che gli sta a fianco. Solo in un secondo momento, razionalmente, ne riceviamo il senso convenzionale. La sensazione di verità della scena nasce dall’apparente casualità, e quindi spontaneità, con cui convivono tanti elementi connotativi. Se – ad esempio – si fosse zoomato su uno di questi oggetti, se si fosse fatto un piano sequenza, se ne sarebbe neutralizzato l’effetto; il loro potere di emanare sensi ulteriori così forti sta nella loro giusta distanza, nel non essere analizzati, indicati.

Questi oggetti messi assieme ci dicono che non siamo in un luogo dove regnano onestà e trasparenza, che il nostro Larry non coltiva passatempi raffinati; questo è fuor di dubbio, ma ognuno di essi stimola ipotesi ulteriori. Se intendiamo saperne di più su aspetti di Larry di cui il film non ci racconterà, possiamo affidarci al potere narrativo degli oggetti del suo ufficio.

Un altro oggetto che narra più di quello che vediamo in quella scena è il cappello di Budd;  a Larry non va giù e da tempo gli chiede di toglierselo. Quel cappello bianco è un simbolo di virilità nel west americano, una specie di copricapo rituale messo sopra ai capelli tenuti lunghi; è la forma privata di anticonformismo di Budd, e il gesto con cui se lo toglie ci trasmette la privazione umiliante, il peso dell'affronto fatto alla propria identità. Questa attenzione per gli oggetti da parte di Tarantino (che ad esser sinceri non sappiamo se attribuire alla sua supervisione o all’opera dello scenografo) è piuttosto ricorrente, e la lista sarebbe davvero lunga; i poster dei super eroi nella stanza di Mr. Purple ne Le iene; il libro che Jules porta con sé al gabinetto; il cerotto sulla nuca rasata a zero di Marcellus Wallace, l’accappatoio dello spacciatore in Pulp Fiction (la cui intera casa merita un’attenta analisi). Sono oggetti che prolungano la vita dei personaggi nella nostra memoria, ci fanno pensare a come siano le loro vite fuori dallo spazio concluso del film, che non vedremo ma su cui, stimolati di continuo, non ci stanchiamo di fare ipotesi.

 

25-09-2017 | 08:13