Sette ore con Gilles Deleuze

Abecedario ha il sapore impolverato del gesso sulla lavagna, di cartine geografiche salgariane e banchi in legno con foro per l’inchiostro, ben stilizzati dall’obsoleto Edmondo De Amicis; riporta pure a Collodi, all’avventato contrabbando che il burattino più celebre di tutti i tempi imbastì per poter ammirare i suoi simili in un teatrino, marinando così la scuola a discapito dei buoni propositi. Ma Abecedario è anche e soprattutto un film-intervista con protagonista unico Gilles Deleuze, strumento mediatico indispensabile per approfondirne il pensiero.

L’opera, in tre dvd sottotitolati in italiano, è recentemente tornata disponibile in una corposa custodia grazie alla casa editrice DeriveApprodi, colmando così un vuoto nel limes spostato sempre più in là dal filosofo francese. All’interno un agile libretto riporta informazioni biografiche e stralci tratti da altre pubblicazioni, nessuno di questi riguardante il contenuto specifico del video. Come se la parola scritta, in Abecedario, fosse stata volutamente abolita. Questa palese intenzione, per altro, ci esimerà dal conforto di proporne citazioni.

Seduto in poltrona, il filosofo interloquisce con Claire Parnet, per quasi sette ore in un’atmosfera informale e rilassata. Alcuni dettagli domestici – l’elegante specchiera alle sue spalle, che permette a tratti di scorgere il bel volto dell’allieva e la libreria sullo sfondo, il cappello sull’attaccapanni che è quasi un’installazione – contestualizzano inequivocabilmente il documento (che non è affatto un documentario, bensì un libro inscrivibile) nel capoluogo francese, confermando così quell’attitudine stanziale e un po’ snob dei parigini.

Per chi conoscesse anche sommariamente il pensiero di Deleuze, la scelta di affidare all’oralità tutta una serie di concatenazioni e divaganti ragionamenti, partendo dallo spunto offerto dall’alfabeto e da parole prese a pretesto con la scusa dell’iniziale, non risulterà così strana. In fondo il legame empatico instaurato con Carmelo Bene – sancito in Sovrapposizioni (Quodlibet, 2002) e ribadito dai trapassi minoranti (rispetto al teatro, alla trama, all’attore, alla recita e all’essere stesso) della phoné – si basava proprio su coraggiose mosse di superamento riguardo a quanto dato per assodato e quindi scontato. Come ad esempio, per un filosofo affermato, l’atto di affidarsi all’amorevole tepore dello scritto ponderato: Che le parole cessino di far “testo”, intendendo con ciò proprio quella vocazione intuitiva e sabotatrice che i due avevano in comune.

Perché poi la parola pronunciata da Deleuze, in Abecedario sbriciolata e resa ebbra, dopo essere stata liberata con l’apriscatole del ragionamento dalla compartimentazione stagna che l’opprimeva, si muove precaria, sdrucciolevole e logorante “ai fianchi” il significante; è nient’altro che atto di sfida alla tirannide pavloviana, arrembaggio a tutto il pensato messo da parte per l’inverno del pensiero.

Afflitto da problemi polmonari, fino alla tracheotomia che ne limitò ulteriormente l’eloquio, Deleuze sembra voler smontare qui gli ingranaggi pesanti dello “scripta manent”, scegliendo la strada apparentemente più semplice dell’amichevole dialogo. A tratti si nota l’affanno nasale del dover parlare, per uno che resterà quasi muto e poi si suiciderà con la consapevolezza di aver girovagato come uno scassinatore dentro al dicibile, fino all’impossibile. Ma lo fece solo per liberare ulteriormente il ragionamento, per emanciparlo soprattutto dai rigidi schematismi tipici della corporazione filosofica. A suo modo, in questo, sarà preconizzatore di un nuovo stile di comunicare, felicemente aperto anche ai non addetti ai lavori e agli adulatori modernisti dell’immagine, a tutti quelli che per comodità tradirono la parola scritta in favore di fotogrammi semoventi. “Verba volant”, dunque, ma parecchio in alto. 

 

 

05-01-2016 | 13:25