Se questo (Ulisse) è un uomo
Che cos’hanno in comune Omero, Orazio, Dante, Joyce, Levi, Tennyson, Pascoli, D’Annunzio, Saba, Pavese? (L’elenco potrebbe essere molto più lungo e i nomi che mancano sono certamente di primo piano). Sono tutti autori che non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con la figura di Ulisse, l’eroe versatile per definizione. Il guerriero più intelligente che ardimentoso, dalle molte astuzie, amato più dall’Illuminismo che dal Romanticismo (che rincorreva invece i sentimenti violenti dell’Iliade). Il viaggiatore per eccellenza, mai pago di cercare nuovi orizzonti. Il bugiardo creativo, che talora mente senza motivo, come rilevano i versi omerici. L’uomo con le sue debolezze: umano, troppo umano nei suoi difetti.
E certo, pur essendo un eroe del mito, egli appare paradossalmente più umano, nella sua primigenia dimensione animale, dell’uomo Platone, filosofo che si spinge invece verso il cielo dell’Iperuranio. <I Greci – ha scritto Whitehead – hanno tramandato due figure le cui vite reali o mitiche esprimono queste due concezioni: Platone e Ulisse. Uno ha in comune la ragione con gli dèi, e l'altro l'ha in comune con le volpi>.
Ma è proprio nella letteratura contemporanea che paradossalmente l’antico eroe Ulisse rivela tutto il suo valore, che trascende la dimensione storica.
C’è un noto episodio, sospeso tra storia e letteratura, che dice molto della forza del paradigma letterario di Ulisse, calato nella più grande tragedia del Novecento: l’Olocausto.
Scrive Primo Levi in Se questo è un uomo:
<Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono>.
Quando Levi decide di parlare a Jean della Divina Commedia, provando a ricordare a memoria (certo non senza un notevole sforzo) il canto di Ulisse, la prosa del Testimone si fonde con una poesia che va all’essenza di che cos’è la letteratura: un’esperienza che ha profondamente a che fare con la vita. E che inevitabilmente riesce a imprimerle un corso diverso, a cambiarla. Qui Levi vive un altro Inferno: quello della degradazione più profonda, il campo di sterminio; il punto più basso dell’umanità che si rivela inatteso nella storia. Proprio quando l’incedere impetuoso della modernità sembrava essersi lasciato alle spalle la barbarie degli antichi e i secoli bui dell’età di mezzo.
Ma proprio qui, grazie a Ulisse, l’eroe dalle mille vite e dalle molte astuzie, grazie alla forza della letteratura che instancabilmente sa inquadrarlo, come una macchina da presa che non conosce sosta, da una prospettiva sempre differente, l’uomo non perde la dignità e si risolleva dagli Inferi, quasi attingendo dal patrimonio insondabile di una religione laica: quella delle parole che danno senso al mondo.
Così, anche nel gelo del Lager, i versi della Divina Commedia rinnovano il simbolo della dignità umana che si salva e si fortifica attraverso il desiderio di conoscenza e di libertà. Ulisse non esitò ad affrontare il folle volo e a dannarsi a causa della sua insaziabile sete di conoscenza, secondo la tradizione accolta da Dante. Un modello, anzi il modello che può trovare la sua dimensione in ogni tempo. Anzi che supera e spezza le barriere del tempo. E che parla molto bene all’uomo di oggi, inquieto e avido di conoscere, in quello sconfinata navigazione (anche le parole assumono dunque un significato ambivalente e beffardo) nell’oceano della Rete.
Chi, se non lui, è il navigatore per eccellenza, che può indicare la rotta? E che ancora oggi, come dimostrò anche l’affollatissima lezione di Roberto Benigni sul tema, può trovare un uditorio affollatissimo. Pronto ad ascoltare. E a mettersi in viaggio, perdendosi nell’oblio. Anche solo in un mondo virtuale e sfuggente.