Se anche il calcio è solitudine

Ci sono dei momenti in cui perfino lo strumento universale della socialità, la conversazione, arranca miseramente: durante le conversazioni sul calcio. Questo, inutile nasconderselo, vale pure per quei rari conversatori che amano il calcio, poiché anche costoro, se sono veri conversatori, dopo un po' si sentiranno soffocare: la conversazione è cangiante per natura, non può fermarsi in nessun posto, mentre è caratteristica dei calciofili rimanere aggrappati al loro trito discorso come fosse una cintura di sicurezza anziché un cappio con scorsoio. 

Il calciofilo parla di calcio per sentirsi meno solo, perché ignora che il calcio è solitudine: per questo, dopo che ne ha parlato, si senta ancor più solo di prima e trasmette anche ai suoi interlocutori tale desolazione. Ma il conversatore, se saprà far affiorare questa solitudine dal discorso e saprà proiettarla come un fascio di antimateria sul drago calciofilo, avrà la meglio. Ecco perché quando si troverà asserragliato dagli esperti di calcio, dovrà rischiarsela pur di non trasformarsi in quella strana creatura che tutti conoscono e che ancora nessun etologo s'è degnato di descrivere: la curvista per procura. Dedichiamole un attimo, come suggello della sua nobile e insulsa militanza. 

Ella, fidanzata col fanatico di calcio, è ontologicamente abbonata alla curva: pure se non ci va, lui l'aggiorna su tutto, le parla per ore di ciò che è successo allo stadio, di cosa ha fatto coi suoi amici oligofrenici, di ogni balordaggine. Ci si accorge del suo stato per una certa somiglianza con re Théoden prima dell’arrivo di Gandalf. Per vedere fino a che punto è dissociata basta fare una semplice prova: a un certo punto le si rivolga la parola quando meno se l'aspetta, la si vedrà sobbalzare riacquisendo la padronanza della mandibola e uno sguardo semivigile, dopo che vi avrà risposto tornerà al suo contegno da dagherrotipo funebre. Ma la curvista per procura è parte della salvezza del conversatore: quando i suoi occhi incroceranno quelli fané della poverina, la paura di fare la stessa fine gli darà l'ardimento necessario a dar battaglia. Che sia chiaro: se il conversatore vuole evitare questa ingloriosa fine dovrà diventare calciatore a sua volta, capire che il calcio è la rappresentazione fisica della conversazione e che la parola passa come una palla. 

Due sono i testi sacri a cui votarsi: Il più bel gioco del mondo di Gianni Brera e Fùtbol di Osvaldo Soriano. Dal primo si apprenderà la lezione retorica per cui una partita è come una battaglia del De bello gallico, in cui ogni piede è di qualcuno e quel qualcuno è l'eroe di alcuni istanti non consecutivi che sono "il lungo, lungo film del quale ciascuno di noi, a suo modo, è stato e rimane protagonista". Brera insegna che il calciatore "non è nato calciatore, è nato uomo; e come tale venendo al mondo, non era molto più d'un grinzoso e violaceo ranocchietto pieno di fame e di cruccio", quindi che tutta la compagnia della squadra è un'illusione e che egli è, come il conversatore, solo. Dal secondo andrà centellinata la poetica illusione di una storia (la cronaca della partita, ma come fosse scritta da Cesare Cantù) che altro non è se non paravento della medesima solitudine: "si potrebbe parlare a lungo dell'infinita solitudine di Altobelli e Scirea, le due estremità dello schema", "Oscar Ruggeri aveva potuto andare a concludere tre volte tutto solo", "Amoros e Giresse hanno scorrazzato per la metà campo italiana, in sorprendente libertà". Dalle righe di Soriano emerge che, come l'eroe di Brera è un poderoso etrusco, così per lui l'eroe è un Ulisse mingherlino a cui "non si può chiedere di essere intelligente e sensato allo stesso tempo".

Ecco la vera essenza del calcio e, se il conversatore la saprà utilizzare, potrà – oltre che salvare se stesso – perfino atterrare il tetragono carceriere sciogliendo la curvista per procura dall’incantesimo e vivere felice con ella in un castello fatto di delizioso torroncino al pistacchio.

26-01-2014 | 22:21