Romantico, irrazionale Salvador
Torna a far parlare il genio pittorico di Salvador Dalì, con due mostre di taglio diverso, per non dire opposto. A Pisa, presso Palazzo Blu, il surrealismo del catalano incontra il rinascimento italiano, in una versione espositiva che tende a pacificare le inquietudini oniriche in favore della continuità col codice classico. A Bologna invece Dalì Experience, presso Palazzo Belloni – ma con una concezione “diffusa” com’è d’uso oggidì - si ripromette di accentuare l’elemento visionario, puntando gigionescamente sulla tecnologia: realtà aumentata, multimedialità, possibilità d’interazione con le opere da parte dello spettatore. Accademia filologica da una parte e nuovi trastulli virtuali dall’altra, insomma, volendo enfatizzare questa dicotomia manichea, l’enigma di un Giano. Dando speranzosamente per scontata la ricezione popolare delle opere, giacché Avida Dollars (come lo anagrammò perfidamente André Breton) fu assai abile nelle attività di autopromozione, vorremmo indagare un aspetto meno noto della genesi creativa del baffuto surrealista, probabilmente chiarificatore riguardo all’ambiguità accennata.
Orologi sciolti, elefanti su trampoli filiformi, sagome oblunghe, uova solari, tutta una zoologia metamorfosata ad ufo, ma pure riferimenti sacri, mitologici, esoterici. L’universo invertebrato, ma anche un po’ invertito, del marchese di Púbol, ha certamente connessioni psicanalitiche, talmente evidenti da risultare pleonastico rincarare il dosaggio in questa sede. Molto più interessante potrebbe essere l’esplorazione dei riferimenti letterari, che inevitabilmente ci portano a riscoprire l’ombrosa figura di Isidore Ducasse, ai più noto come conte di Lautréamont. Morto a soli 24 anni nel 1870, personalità controversa molto prima che divenisse consuetudine palesarsi tali in letteratura, l’autore de Les chants de Maldoror può essere collocato nel reparto di rianimazione del Romanticismo. E siamo buoni, sistemandolo in un luogo dove ancora v’è un barlume di speranza. Ben prima delle entomologie kafkiane e soprattutto dello Zarathustra di Friedrich Nietzsche, Ducasse ebbe infatti l’intuizione di affidare ad un anti-profeta le sue deliranti elucubrazioni, imbastendo di fatto un’allegoria perversa, veterotestamentaria e al contempo blasfema, destinata a germogliare proprio con i surrealisti.
Fantasmagorica bizzarria poetica in sei atti, ottuso condensato del mal di vivere, mostruoso barocchismo di sangue e frattaglie, l’epica rovesciata di Maldoror fu così definita da Léon Bloy: “L’autore mi faceva pensare ad un uomo nobile che si sveglia nel cuor della notte nel letto d’un’immonda prostituta, e, esaurita ogni ebbrezza, si sente alla sua mercé, completamente nudo, raggelato dal disgusto, agonizzante di tristezza, e obbligato ad aspettare il giorno!”. Reazione con esequie scomposte all’accomodamento razionale, ereditato dall’illuminismo; follia che sbraca in zolfo e sterco, soliloquio psichedelico tra lamentazioni annichilenti ed arrembaggi arditi, il cantico ipnagogico di Lautréamont è altresì quasi contemporaneo del più noto Alice's Adventures in wonderland di Lewis Carroll. Ed è curiosa la specularità allegorica: di qua le tenebre viziose e violente, di là il caleidoscopio allucinato in soave contesto. Resta il fatto che, piroettando il discorso, la popolare simbologia, caratteristica dei dipinti di Salvator Dalì, trova spiegazione lungi dal contesto avanguardista novecentesco; quella favilla ideativa immaginifica, ha radici forse proprio nella brumosa irrazionalità romantica.