Robert Walser fuori dall'oblio

All’oggi probabilmente non è passato un solo titolo in grado di squassare dal torpore l’appartata figura di Robert Walser, scrittore svizzero di lingua tedesca vissuto tra XIX e XX secolo; poco idoneo all’almanacco letterario del giorno stesso, non un’esca messa in bocca ai lettori dalla moda dei recuperi postumi, di quei rilanci pianificati che piacciono tanto a chi deve smaltire fondi di magazzino; non una biografia con copertina patinata da bookshop, nemmeno l’impeccabile veste rosa Adelphi vi riesce appieno, di certo non inesistenti cattedre monumenti medaglie coppe premi festival alla memoria; non quella notorietà rimasticata, ridondante, banalmente diffusa, che caratterizza il grossolano citazionismo social, non il distintivo arrugginito ma ancora spendibile - per taluni - di scrittore di destra o di sinistra (costui riuscendo nell’impresa di risultare alieno ad entrambe le parti, e forse all’intero mondo); addirittura potrà sembrare superflua, eruditi novecentisti esclusi, l’influenza che ebbe per Robert Musil, Elias Canetti. Franz Kafka, Hermann Hesse, Walter Benjamin e molti altri. Niente di tutto ciò riuscirà ad avvicinare il lettore medio contemporaneo all’opera sublime di Robert Walser, anche da morto assai refrattario al blasone e alla popolarità. Uno che per tutta la vita studiò l’arte di consegnarsi all’irrilevanza, uno che mantenne la promessa nascondendosi per bene, giocando nella permanente dissociazione dall’idea di sé, da quel “dover fare o essere” che t’ammazza. Meglio impazzire. Meglio scrivere.

Molto più facile che l’incontro avvenga per caso, al mercatino del libro usato, oppure grazie a una fotografia, quella sì in grado di connettere l’avida schizofrenia smartphone e il far di conto sui “mi piace” con certi viatici apparentemente marginali, minoritari, elusivi. O nascosti in una fiaba invernale, gotica senza volerlo. Immagine innocente quanto drammatica, segnante e di rara potenza: umana, poetica, simbolica, addirittura esoterica. Lo scatto in questione mostra la sagoma nerovestita di Walser distesa nell’abbacinante manto nevoso, braccio allungato nell’atto spento, ormai vano di riprendersi il cappello caduto poco distante; in primo piano orme, passi che si fermano a debita distanza, come bloccati da un invisibile ostacolo, lasciando così il morto afflosciato, circonfuso di immacolato biancore. Più in là una staccionata appena visibile, grigio segno di matita a trattenere la prospettiva, per il bozzetto di una scena irreale. Quale non fu: stroncato da infarto durante una passeggiata solitaria il giorno di Natale del 1956, Robert Walser era da anni ospite del sanatorio di Herisau, nell’Appenzello, dalle sue parti, assente al mondo o presente in un modo tutto suo. Il corpo fu notato da due bambini in libera uscita, li immaginiamo spensierati a far pallate e a correre felici dopo il pranzo della festa. Curioso che simile tragico accadimento rientri nei domini della preveggenza, giacché fu narrato dall’autore stesso nel 1907 nel romanzo I Fratelli Tanner: “Circa a metà della salita Simon vide d’un tratto un giovane sdraiato nella neve in mezzo al sentiero (…) era morto assiderato, senza alcun dubbio, e doveva giacere lì da molto tempo, sul sentiero”.

Ma chi fu davvero Robert Walser? E perché è paradossale che non sia conosciuto, diffuso, dibattuto, letto come meriterebbe? Nello Zibaldone di Giacomo Leopardi troviamo un indizio: “…e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare, e ben fatte ognun sa”. Scrittore per scrittori, questa è la sua infausta fama, questa la sordida magnificenza del presunto folle, di colui che fece svanire la grafia in una miniatura d’inchiostro quasi intraducibile. Ecco, la prosa apparentemente naif, a tratti addirittura kitsch - se teniamo conto della buffa propensione al vezzeggiativo, a certe infantili, volute leziosità e all’ossequio passivo proveniente da scomoda posizione subordinata che l’autore mise in campo artatamente, con ostentata innocenza - ci rendiamo conto d’essere capitati dentro un microcosmo d’equivoci, dettagli perduti in un giardino d’inganni o, come ebbe a sostenere Roberto Calasso in merito: nel decoro abissale della ghirlanda, nell’arabesco senza che vi sia più nulla attorno o alle spalle a sostegno della causa, di qualsiasi causa, blasone, ambizione, rivendicazione; e ancora, nella doppia funzione difensiva del labirinto, che difende il minotauro/che difende dal minotauro; nel frattempo potremmo perderci, come da prassi leggendo Walser, perché la sua passeggiata solitaria tracciata con briciole di Pollicino, marchiata da soliloqui e acute osservazioni, da minuzie e dettagli trascurabili, conduce dritta nelle tenebre della foresta. Per quanto se ne apprezzi la formale espressività, la sottile ironia, certe spiazzanti sortite ancora tardoromantiche, le geniali inquadrature urbane o campestri e quell’incanto da eterno novizio, permane una strana sensazione, come quella di giocare a nascondino con Moloch. C’è lo spettro inquietante del non detto, il tragico vezzo di minimizzare se stessi per passare inosservati – tant’è che nei suoi scritti i figuranti, passivi accondiscendenti, antieroi, sono per l’appunto tutti assistenti, dipendenti, apprendisti, servi, scolari, facchini della vita - per far urlare il potere costituito fino alla raucedine. Per poi riderne di nascosto, tra le righe. Tra le piaghe.

La vita come malattia e farmaco, meccanismo e auto-diminuzione volontaria o forse indolente, prassi ed escamotage, allineamento e marginalità; perciò Walser, flâneur di boschi fatati, si compiacque di usare un frasario artificiale, frammentario, anti-intellettuale, microscopico, al fine di smontare pezzo per pezzo qualsivoglia carica, progettualità, didattica, pedagogia, appartenenza o responsabilità sociale, gran stile, potentato, prosopopea, traguardo. Ma lo fece coi mezzi stessi del potere costituto, accettandone kafkianamente le leggi e gli ottusi regolamenti, snobbando altresì le rozze indignazioni dei pretendenti qualcosa e soprattutto gli strepitii dell’altra corporazione, quella dei rivoltosi rancorosi. Com’è nell’ambiguità che avvolge l’istituzione, l’educazione ribaltata dello Jakob von Gunten, dove si dovrebbe imparare a servire e invece non s’apprende alcunché. Perché lo si sa già.  Buddista inconsapevole? Maldestro anarchico? Ingenuo masochista? macché, salta alla mente piuttosto certo cinema di Wes Anderson, tipo Grand Budapest Hotel, laddove tutti gli accadimenti, i personaggi, la cosiddetta trama, vengono risucchiati dalla scenografia, messi in carillon da un’atmosfera mitteleuropea perduta e trasformati in decoro del decoro, cornice della cornice, in suppellettili e lacerti del vecchio albergo. Della vecchia vita. Dell’hotel decaduto con tutte le sue gerarchie divenute superflue, le divise, i ruoli, antiche premure fattesi paccottiglia parodistica, quando non resta che il saio di una domanda per solitari, quasi un capriccio: prendere o no le cose sul serio?  Robert Walser è la forma che permane, quando questa non ha più ragion d’essere. Perché in fondo l’esistenza è tutta una superficie sulla quale pattinare, come nel tempo diverso del perdigiorno e del vagabondo, ma è meravigliosa proprio per questo, per l’accettazione che le si concede.

 

 

21-03-2019 | 14:53