Quell'estate, amor di vita

Cesare Pastarini

«Quelle notti erano notti estive, e il suo amore per l’estate fu forse il sentimento più forte della sua vita». Si tratta di un verso breve che Pier Paolo Pasolini, riferendosi a sé defunto, scrisse nel 1968. A significare il suo amore per l’estate, s’intende. Quella che termina oggi. L’Estate del più grande intellettuale italiano del ‘900 finì improvvisamente e col taglio netto del destino il 2 novembre 1975. Proprio di notte, tra l’altro. 

Il troncamento della sua vita turbò molti. Gli stessi si chiesero se, al di là dei valori umani sconsacrati dalla viltà del gesto e dalla pietà del sacrificio, non vi fosse il segnale, maturo e inequivocabile, di una nuova guerra tra le genti, non dichiarata, ma già in atto. Una guerra sottile, per quanto possa farsi fragile una guerra, che come due fiammiferi accesi e avvicinati aveva messo l’uomo contro l’uomo, infiammando entrambi. Distruggendosi reciprocamente. Per un delitto non solo fisico, ma soprattutto dell’animo. Domanda, oggi come allora, a cui è difficile rispondere, o che forse già in questo scritto e in questa lettura, tenta di non lasciare incompiuto il punto interrogativo.

Pasolini era un poeta vero. Testimone inquieto e inquietante. Faceva opinione, disturbava. Era un moralista? C’è chi lo pensa. Ma anche se il suo maestro fosse stato Montaigne, il grande moralista del Cinquecento, la fatica di fare uscire con ogni mezzo la mente dal sonno e dalle catene non resta un monito esemplare e privo d’appello?

La società da lui ipotizzata e temuta, la società dell’omologazione culturale, si stava in parte già attuando dopo il boom economico. Non ha fatto in tempo a vedere a compimento ciò che i suoi libri, i suoi film, i suoi scritti, le sue interviste dimostrano.

Noi siamo nella morte di quest’uomo. Che d’altronde e banalmente era proprio e solo un uomo. Un uomo sofferente per quella trepida inconsistenza delle cose che il suo sguardo vedeva, la lucida analisi di ciò che siamo e che non siamo. Un essere solo - sì, solo - al centro di falsi problemi, dell’imbecillità, dell’ignoranza. Pasolini proiettava un’immagine che ogni tanto doveva smorzare quando troppo caricata di luoghi comuni, di pubblicità non cercata, dovuta a quella forza di raggiungere tante identità, in cui ognuno si specchiava e si specchia. Abbiamo costruito (anche qui, ora) un’immagine codificata, quasi accertata, di ciò che era - che è! - Pier Paolo Pasolini.

Ma neppure questo è del tutto vero: non sempre i servi sono buoni, non sempre gli umili sono ingenui o i padroni sono maligni. A vittime e carnefici non è impedito di sostituirsi i ruoli. Era questo ciò che lo faceva volare, la sua libertà di pensiero, il saper cambiare prospettiva. Così prendeva fiato e parlava e scriveva per chi non aveva voce, e per chi non la trovava, o non la cercava. Resistendo alla tentazione di essere integrato, rischiando però di essere strumentalizzato, come è accaduto e accade, con false manipolazioni storiche e ideologiche.

Lo scrittore della sofferenza che alcuna politica, alcun potere, alcuna economia avrebbe potuto attenuare. Quando fu ucciso, massacrato, fu propria questa la percezione che affiorò con forza: il suo cadavere, di cui venne fatto scempio, affiorò come un fiore tra la sabbia di Ostia. Come può un germoglio svilupparsi tra le macerie?

Ecco perché la sua morte non andrebbe vista come un fatto di cronaca, o soltanto come un fatto di cronaca. Dovrebbe stimolare il dubbio sulla nostra complicità, sulla nostra volontà, o assenza di volontà, di salvaguardare l’altro, senza destare il sospetto di essere qualificati diversamente. Disumani.

Era intollerante, Pasolini. E la sua intolleranza indicava che la «Saison en enfere» di Rimbaud doveva concludersi con una ripida discesa nel Regno dei morti, secondo quel filo rosso tracciato da Ulisse, Enea, Dante, che collega il tempo infinito del passato a quello infinito del futuro.

Pier Paolo Pasolini ha tentato di tutto pur di salvarci, ma nemmeno la poesia gli è stata d’aiuto.

 

Assenza/presenzaIl salotto di Casa Pasolini, a Casarsa, nel 1995. Sulla parete una foto di Pier Paolo da ragazzo. ©Piergiorgio Branzi, Elio Col, Frank Dituri

 

 

15-09-2020 | 10:41