Quanta meraviglia, Quentin

Chi si aspettava da Tarantino qualcosa che fosse una propria conferma, (a ben vedere, uno come Tarantino un po' di manierismo potrebbe permetterselo), può essere rimasto deluso da una prima visione di “C'era una volta a... Hollywood”. Potrebbe infatti sembrare, a chi sia assuefatto alle geniali rivisitazioni dei generi secondari, alle sorprese a catena che Tarantino non ha mai fatto mancare, che buona parte del film non sia che una serie di premesse che non portino a nulla di definitivo, come un motore che romba senza mai partire. Invece, con questo film la sorpresa Tarantino la serve su più fronti, compreso quello della costruzione formale, puntando a realizzare un rapporto tra spettatore e personaggio che non aveva ancora considerato, più morbido, ma anche più complesso.

In fondo, i bei film non si fanno certo per confermare le nostre attese o pregiudizi ma per costringerci a smentirli; è quel che succede quando rimaniamo a bocca aperta. Potrebbe quindi bastare poco per trovare un punto d'osservazione abbastanza chiaro da cui ripensarlo e avere l'impressione aver visto un grande film. Grande in un'accezione davvero alta, cioè un film con un entusiasmante impianto narrativo, un bellissimo soggetto, un cast perfettamente indovinato. Il tutto immerso nei colori di una meravigliosa e solare fotografia e una colonna sonora che, come sempre in Tarantino, satura imperiosamente le scene di energia.

D'altronde, non si dovrebbero nutrire attese definite verso il regista che più di tutti ha mantenuto una incessante capacità di meravigliare il pubblico - e si intenda la parola "maraviglia" (una volta tanto a pieno titolo) nel suo significato barocco. E barocca è l'idea (già percorsa da altri) di un film sul cinema, ma qui incanta la leggerezza con la quale è resa la metafora della visione, che prende forma nelle porte girevoli tra vita reale e set cinematografico, negli sguardi con cui gli attori guardano sé stessi rimpiccioliti alla tv o ingigantiti sul grande schermo, quasi rincorrendo le proprie immagini  trasformate e risignificate dalla macchina del cinema in un'anamorfosi di senso. E noi, attraverso il loro sguardo, condividiamo la meraviglia della visione - vera e indecifrabile - dell'immagine fotografata.

Poi vi troviamo il tema del doppio, svelato da una serie di caratteri contrapposti, a cominciare dalla coppia Di Caprio-Pitt (così ben combinata che sembra un appuntamento fin troppo rimandato), un incastro tra una sorta di Don Giovanni fuori fase - stella di media grandezza istradata su di un inarrestabile declino professionale - e la sua controfigura, un Leporello invertito di segno: risoluto, autosufficiente, disincantato e indecifrabile. Mentre l'attore arranca, decade, perde autostima e si inceppa, rincorrendo affannosamente il cinema e le leggi implacabili della sua macchina produttiva, il suo stunt-man e tuttofare personale agisce senza indugi, quasi un oltreuomo che ha già visto tutto del mondo, che guarda Hollywood dall'alto al basso, con sufficienza e compatimento. Il tema del doppio ritorna, al centro del travaglio interiore del protagonista, nel Rick Dalton/ Leonardo Di Caprio dinnanzi alla propria immagine di attore che sbiadisce sul set, nelle occasioni perdute, nelle speranze, nelle valutazioni dei produttori, nella memoria del pubblico, nei sogni infranti, nel giudizio di altri attori. E ancora, il doppio - nella metafora del mondo che è il cinema - è la misura di sé, il solo "sé" che davvero importi.  Alla fine  il doppio trionfa sulla realtà, sulla storia conosciuta. E forse il dialogo più toccante del film è quello fatto con la sola voce di Sharon Tate al citofono della sua villa che invita Rick Dalton a entrare a bere qualcosa (di più, per non spoilerare, non si può dire). E qui è subito chiaro che di Quentin Tarantino ce n'è uno e uno soltanto. Stando alle sue dichiarazioni, dovrebbe essere il suo ultimo film; contiamo sulla sua propensione all'incoerenza perché sia colto da un tempestivo ripensamento.

 

 

27-09-2019 | 17:54