Quando muoiono gli eroi

È stato molto, molto di più di un cantante. È stato un esempio. Uno che faceva unicamente ciò che voleva e lo faceva solo a modo suo. Quindi, straordinariamente bene. Sempre inatteso, costantemente nuovo. Camaleontico, hanno detto. In realtà, semplicemente originale, nel senso più stretto del termine. Perché David Bowie era la perfetta e visibilissima incarnazione di un sogno di assoluta libertà. Il sogno che tanti hanno condiviso con lui in quei meravigliosi anni in cui si è creduto di poter essere eroi, almeno per un giorno.

Impossibile non provare nostalgia. Certo, ci sarà sempre un menagramo pedante a ricordarci con la dovuta saggezza da due soldi che, da quando mondo è mondo, i padri trovano i propri tempi migliori di quelli dei figli. Ma, questa volta farebbe meglio a rispettare il lutto e a non rompere le palle, almeno per un giorno. Perché chi è stato abbastanza fortunato da avere diciotto anni negli anni ’70, ora sa con esattezza quanto quella fosse un’epoca eccezionalmente felice, gravida di speranze. E oggi è oppresso da una grande tristezza per la morte di Ziggy, del Duca Bianco, di Halloween Jack.  Il loro funerale è anche il funerale di quel tempo bello che se ne è andato e non sembra poter tornare.

Erano gli anni in cui perfino il nostro paesello ai confini dell’impero si trovava in piena eruzione. Finalmente, nelle scuole o per le strade, si erano accantonati i progetti di rivoluzione e rimaneva solo una gran voglia di libertà. Da tutto e, soprattutto, da qualunque forma di ortodossia, anche quella rivoluzionaria. C’era disordine, casino, confusione, anarchia. Meraviglia. Lo stesso sentimento di stupore e leggerezza che il Maggiore Tom provava fluttuando nello spazio. Come per incanto il “personale” era diventato “politico”. Sulle note di Starman, “le menti erano scoppiate” e, come cantava Bowie in Rebel Rebel, “l’eccesso era la regola”. Ogni autorità era destituita di una qualsiasi autorevolezza. Ci si sentiva liberi di manifestare legittimamente il proprio individualissimo scherno contro qualunque istituzione e qualsivoglia suo rappresentante, menagramo e pedante. A cominciare dalle faccette grigie, quasi nere, dei soldatini della FGCI. La Chiesa, la Polizia, lo Stato, la Scuola, i Padroni, la Famiglia.

Tirava aria di festa, non certo di guerra. Anche se ci sarà sempre un menagramo pedante a ricordarci con l’espressione contrita da seminarista in pensione che quelli erano gli Anni di Piombo e che il disordine costò un prezzo carissimo. Ma, oggi farebbe meglio a rimpiangere l’altra faccia della medaglia e a non rompere le palle, almeno per un giorno. Perché chi ha avuto la fortuna di godersi la passeggiata sul lato selvaggio della strada sa con esattezza che la sola musica che si voleva ascoltare era quella del sax d’oro di Ronnie Ross, primo maestro di Bowie e interprete dell’assolo di Walk on the wild side del grande amico Lou Reed, non certo quella del piombo dei kalashnikov. Era aria di carnevale, non di funerale.

Le radio libere nascevano come funghi. Per fare una trasmissione bastavano tre compagni esaltati da una birra e un paio di canne, in uno stanzino al piano terra di un casermone popolare. Raccontavano davanti ad un microfono tutto quello che gli passava per la testa. Anche un sacco di fesserie.  Poi, fuori onda, si mettevano a starnazzare a squarciagola “Heroes”, in un inglese immaginario, mentre la canzone andava nell’etere. Ed erano allegri e agitati, come i bambini la notte di Natale, come quelli che la stavano ascoltando, in macchina, al cesso o in officina.  

E ancora, c’erano spettacoli spontanei, al liceo, nelle palestre, in piazza. Molti avrebbero fatto meglio a dedicarsi agli studi da ragioniere, ma tutti erano convinti, senza sapere per quale motivo, che la libertà fosse un fatto estetico prima ancora che morale e politico. E, in qualche angolo della testa di ognuno, c’era l’immagine di quel ragazzo di Brixton che aveva rivoltato come un calzino l’Inghilterra tradizionalista e puritana. Facendo della propria vita un’opera d’arte, dando a vedere come la libertà fosse innanzitutto quella di esprimere ciò che si sognava di essere. Dapprima con il suo mentore Lindsay Kemp, poi in solitario, vestito da marziano, da donna, da gangster degli anni ’30, da clown. Buffone sottile e acuto, tombeur de femmes en travesti, musicista raffinato, sempre un passo avanti agli altri.

Talmente avanti che, quando tutti lo osannavano per le colte collaborazioni con Brian Eno, lui fu capace di scappare immediatamente dalla gabbia che gli si stava costruendo intorno e di tuffarsi nella dance music, partorendo successi planetari come Let’s dance o China girl, che ne fecero una stella della musica più popolare. Per uscire, subito dopo, dal sentiero sul quale chiunque lo attendeva e ritornare semplice membro di un modesto gruppo rock come i Tin Machine. E così via, evitando ogni tappa scontata, tra teatro, cinema e musica, fino all’ultimo capitolo della sua tortuosa vita d’artista. Quel Black Star che, più di un bellissimo disco dalle dense e sorprendenti atmosfere dark jazz, è un estremo tentativo di andare oltre ogni forma di costrizione, un’eroica affermazione della libertà di creare anche contro lo strapotere della malattia e della morte.

Bowie è stato un artista unico, completo e multiforme. Cantante, compositore, pittore, scenografo, costumista, attore, scrittore. Ma, sopra e prima di tutto, interprete delle aspirazioni utopiche di tutta una generazione. Amico fedele e compagno di viaggio solidale, ha favorito e spesso risollevato le carriere di altre stelle cadute in disgrazia, come Iggy Pop, Lou Reed o ancora Tina Turner. E questa sua generosità verso l’arte e gli artisti si è estesa anche ad altri campi della creazione, in particolar modo alle arti plastiche. È risaputo che fu un collezionista sapiente e curioso, le cui passioni spaziavano da Rubens a Frank Auerbach, da Damien Hirst a George Grosz (indimenticabili le scene del tour Halloween Jack, ispirate alle strade di Berlino), e tante sono state anche le collaborazioni con artisti suoi coetanei, prima fra tutte quella con Tony Oursler per il bellissimo video di Where Are we Now?

Nel 2013, mentre in Italia si stava fremendo per il ricongiungimento di Al Bano e Romina, l’Inghilterra tradizionalista e puritana gli ha consacrato una ponderosa mostra al Victoria & Albert Museum di Londra, intitolata “David Bowie is”. Ed è stata l’occasione per attraversare il suo universo fatto di ricerca, di suoni, immagini, relazioni, letteratura, pittura. Un mondo complesso che in realtà si riassumeva nel tentativo continuo e tenace di reinventare se stesso ed i propri orizzonti attraverso una forma d’arte totale.     

David Bowie resterà nei cuori e nelle menti di chi lo ha amato proprio così, come l’immagine del potere liberatorio della fantasia, vale a dire della fantasia al potere.  La personificazione di uno slogan che, negli anni confusi e gioiosi in cui tutto era pretesto per lasciarsi andare all’espressione più disinibita e adolescenziale del desiderio, non aveva contenuti definiti, se non l’infinita voglia di dare forma alle proprie voglie.

 

 

13-01-2016 | 22:49