Quando l'addio è assurdo
Può capitare che durante una delle maratone di studio, ci si ritrovi a sfogliare il racconto dello storico Svetonio su Augusto, primo imperatore romano. In particolare nella parte relativa alla morte del princeps sembra di assistere realmente alla scena: “Chiese uno specchio, dette ordine che gli pettinassero i capelli e che gli aggiustassero le guance cadenti; quindi disse agli amici ammessi nella stanza: Ho recitato bene la mia parte. Congedatemi dalla scena con i vostri applausi.” Una morte teatrale, degna di un grande personaggio.
Ampliando lo sguardo al mondo classico, si può ripensare alle fine di uomini noti, che, memorabili come quella del divo Augusto, talvolta sfiorano le corde del parossismo. Ce ne sono di imbarazzanti, di orripilanti, di assurde. Per questo è opportuno vivisezionare queste notizie con il bisturi della verità storica: molte “morti illustri” sono improbabili, alcune hanno soltanto una parvenza di realtà, altre sono verosimili, perché attestate da fonti credibili.
In ogni caso, la casistica è ampia e variegata; la carrellata è lugubre, ma divertente.
Sofocle, drammaturgo ateniese di V secolo a.C., autore di capolavori assoluti come l'Edipo Re, ebbe, a quanto ci racconta un gruppo cospicuo di fonti, una morte poco degna della sua grandezza: durante un banchetto, ormai anziano, lanciò in aria un acino d'uva e lo afferrò con la bocca. Questo gli andò di traverso e morì soffocato.
Sicuramente inattendibile è la leggenda circa la morte dell'altro grande tragediografo classico, Eschilo. Mentre si trovava a Siracusa alla corte di Gerone, uscì per una passeggiata. Volteggiava in cielo un'aquila, che tra gli artigli aveva una tartaruga. Cercando una pietra su cui scagliare la preda, così da mangiarla, l'aquila scambiò il cranio calvo di Eschilo per un sasso. Prese la mira e scagliò: l'autore dell'Orestea cadde morto sul colpo.
La più nota tirannide greca di età arcaica è quella di Falaride di Agrigento (VI secolo a.C.). Crudele e sanguinario, Falaride imprigionava e torturava in maniera poco ortodossa i suoi nemici: questi venivano arsi vivi, letteralmente abbrustoliti, dentro un toro bronzeo infuocato, costruito appositamente; dalle ossa delle vittime, Falaride ricavava braccialetti. Lo storico Erodoto ci racconta anche che questa fu la forma di tortura più nota ai Greci. L'autore cristiano Orosio riferisce che, per un gioco del destino, il tiranno trovò la morte a causa della sua stessa invenzione: l'usurpatore Telemaco lo gettò nel toro infuocato, le sue urla uscirono distorte in muggiti animaleschi. Dante scriverà del bue cicilian nel XXVII canto dell'Inferno, in una similitudine riguardante i consiglieri di frode.
Sempre Orosio racconta con dovizia di dettagli la morte dell'imperatore Valeriano (III secolo d.C.), a seguito della sconfitta contro i Persiani. Sapore, il loro re, usò Valeriano prima come sgabello vivente per salire a cavallo; poi lo fece uccidere e scuoiare; riempito il cadavere di paglia, ordinò di sistemarlo davanti a un tempio persiano, come simbolo della vittoria su Roma. La notizia appare probabile anche perché viene citata da altri autori, prima fra tutte l'apologeta Lattanzio.
Un personaggio sul quale si sono diffuse leggende di ogni tipo fin dall'antichità è Alessandro Magno. Proprio sulla sua nascita e morte si concentrano gli aneddoti più strani. Il più fantasioso è quello riportato da Plutarco nella Vita di Alessandro: il re sarebbe nato da un fulmine, che colpì il grembo della madre Olimpiade, fecondandolo. Alessandro ebbe natura semidivina, dato che il fulmine è la personificazione di Zeus.
Circa la morte, alcune fonti fanno cadere il sospetto su Olimpiade, che avrebbe avvelenato il figlio; un altro gruppo di fonti, capeggiate da Plutarco, attribuisce credibilmente la morte di Alessandro alla malaria, contratta in seguito al viaggio in India. Ricerche recenti si sono spinte ad affermare una teoria assolutamente inedita: il Macedone, infaticabile guerriero, conquistatore di terre e popoli, sarebbe morto nell'anno 323 a.C. di cirrosi epatica, a causa dell'eccesso di vino. Beveva molto, gozzovigliava continuamente tra feste e banchetti e pagò cara così la sua condotta incontrollata.
Celeberrima la morte di Cleopatra, ultima regina d'Egitto. Donna di fascino irresistibile, a scapito del nasone altisonante, carismatica e intraprendente, divenne amante di Cesare e di Antonio; tentò di incantare con i suoi modi anche Ottaviano, arrivato al suo cospetto con l'intimazione poco diplomatica di sottomettersi a Roma, pena la guerra. Cleopatra allora aveva quarant'anni, la freschezza giovanile era sparita e il nasone non passava più inosservato: il tentativo di seduzione fallì e Ottaviano radunò la flotta. Dopo che l'Egitto cadde in mano ai Romani e Antonio si suicidò – correva il 30 a.C. – Cleopatra si recò nel mausoleo dei Tolomei e si lasciò avvelenare da un aspide incollata al seno, come riferiscono Cassio Dione nella Storia di Roma e Plutarco nella Vita di Antonio. Secondo alcuni tossicologi moderni, la morte fu causata piuttosto dall'assunzione di un cocktail letale di oppio e cicuta, perché il morso dell'aspide non provoca una morte dolce e priva di spasmi, come è descritta dalle fonti.
Quella della regina d'Egitto è una figura troppo affascinante per non lasciare segni nell'arte, nella cultura. A parte l'Anthony and Cleopatra di Shakespeare e l'Antonio e Cleopatra del nostro Alfieri, forse è nell'arte pittorica che Cleopatra ebbe più rappresentazioni, soprattutto in epoca rinascimentale: Guercino, Gentileschi e Rosso fiorentino dipinsero la morte della regina, con l'aspide invariabilmente stagliato sulla tela. La splendida Elizabeth Taylor diede forma al personaggio di Cleopatra, nell'omonimo film del 1963, vincitore di quattro premi Oscar.