Quando l'acqua prende forma
Come previsto il fim di Guillermo del Toro ha trionfato nella notte degli Oscar 2018, in divertente e surreale coincidenza con la nostra notte elettorale, motivo per cui ne parliamo solo oggi, al caffè numero cinque e alla camomilla numero sei, in doverosa e inutile alternanza (tendenza italica alla quale siamo allenatissimi).
Sorvolando sulle polemiche che hanno proliferato come funghi intorno al successo di questa produzione, così come sul merito di vincere tanto, ci soffermeremo sul perché, soprattutto negli Usa, questo film diventerà un cult.
Del Toro ha il coraggio e la maestria di chiederci di sognare, di non dimenticare, di lottare e non smettere di credere che un giorno la rivincita dei “freaks” segnerà un’epoca. Ci sussurra, in abbondante sovrappeso e magari mezzo brillo, che freak è bello e che la perfezione può coincidere solo con il magico incastro delle diversità, alla faccia della bella famigliola americana wasp, tutta torte e sorrisi ma con la pistola sotto il cuscino.
Un po’ freak anche lui, con una biografia alquanto complessa alle spalle, Del Toro è una sorta di supereroe da videogame colto, quello col panzone che però ha superpoteri che possono annientare l’esercito dei gladiatori potenti e definiti, loro sì, programmati per vincere.
Lui non è programmato invece, improvvisa da genio, con la poderosa scintilla del divino in dotazione, grazie al cielo, alle persone intelligenti.
"L'acqua prende la forma di tutto ciò che la contiene in quel momento e, anche se l'acqua può essere così delicata, resta anche la forza più potente e malleabile dell'universo. Vale anche per l'amore, non è vero? Non importa verso cosa lo rivolgiamo, l'amore resta se stesso sia verso un uomo, una donna o una creatura".
Questo cineasta ha il grande merito di raccontare una favola per tutti, che magari potrà far storcere il naso ai più sofisticati, che però lo storceranno a torto, perché proprio nella semplicità del suo messaggio questo racconto candidamente allegorico ci solleva per un attimo da terra e ci ricorda l’importanza dei sogni e dei sentimenti quando credevamo che il cinismo coatto ci stesse per stendere definitivamente.
La protagonista (l’ottima Sally Hawkins), è una ex bambina abbandonata (così come ci ricorda l’etimologia del suo cognome, Esposito) cui hanno reciso le corde vocali, eppure in lei scorre il fiume più potente che c’è, quello dell’amore incondizionato, libero e animale, scevro da pregiudizi e ottimista, nonostante tutto.
Grazie a questa grande forza riuscirà a salvare la creatura meravigliosa che rischia di essere annientata da una società di mostri veri, figli di quel perbenismo americano razzista e becero degli anni ’60 travestito da benessere e progresso che in realtà esclude e discrimina in modo spietato.
Eliza, insieme al suo amico Gilles (Richard Jenkins), artista di mezz’età, gay e ormai “fuori dai giochi” in un’America che guarda avanti come un tritacarne, la fedele compagna di lavoro Zelda (Octavia Spencer) afroamericana trattata come feccia ovunque diriga lo sguardo e Dimitri (Micheal Stuhlbarg), medico degno del suo giuramento, riescono a beffare una complessa organizzazione in nome della solidarietà e della giustizia umana, laddove molto più umana degli individui di potere che li circondano vi è la creatura del mare, potente ed indifesa alla stesso tempo, simbolo di una purezza preziosa e da salvaguardare al di là di qualsiasi auspicabile progresso.
Guillermo del Toro, oltre a deliziarci con numerose citazioni di nicchia nel salotto di Gilles, come il telefilm “Mister Ed - The Talking Horse” e soprattutto musical minori degli anni Quaranta con protagoniste splendide dive del periodo come Carmen Miranda, Alice Faye e Betty Grable, in questo film fa dei simboli un canale potentissimo per arrivare alla radice della nostra natura, con un ponte senza tempo, fragile e magico come il guscio di un uovo.
Proprio l’uovo, da sempre simbolo di vita, mistero e divino, sarà per esempio l’anello magico che avvicinerà Eliza alla creatura, offerto come nutrimento in senso assoluto, dalle viscere della terra al pensiero più alto dell’amicizia e dell’amore.
Fra le scene più toccanti vi è appunto quella in cui la protagonista riesce a dare fiducia alla povera creatura straziata attraverso l’offerta di nutrimento e bellezza, uova e musica, sorrisi silenziosi e piedi in assetto da tip tap.
E ancora, simbolo feroce della società americana dell’epoca, avida e materialista, sono le due dita che la creatura strappa al suo aguzzino, il colonnello Strickland (Micheal Shannon) e che lui ostinatamente si riattacca alla mano, tenendole nonostante l’evidente e nauseabonda cancrena che le sta divorando.
Eliza e la creatura degli abissi, che con la sua forza misteriosa cura e rigenera, riusciranno anche ad innamorarsi davvero, a fare l’amore, a raggiungere l’uovo del mondo, quello che sta a testa in giù nelle notti di ciascuno di noi, quando i sogni la fanno da padroni senza chiedere il permesso e il buio si accende di luce al contrario, pronta a svelarci chi siamo veramente.
Bello sarebbe sempre ricordarsene al risveglio e che il risveglio fosse tale, nei secoli dei secoli.