Quando la notte è lenta
La dolce vita è uno dei pochi film che senza prolissa retorica, e nonostante una durata considerevole, riescono a parlare del proprio tempo adombrandone le increspature e gli scricchiolii presenti e futuri. Il Neorealismo, nato tra le macerie della guerra, vi si insinua solo come un’eco, le sue figure e i suoi luoghi appaiono trasformati dalla frenesia di un tessuto narrativo straordinariamente nuovo – in una Roma inebriata dal benessere del boom – come scaturiti da un sogno che pare realizzarsi in un’allucinazione notturna.
Sarebbe banale ridurre la Roma antica o quella barocca, contrapposte ai nascenti quartieri periferici, a una lussuosa cornice di ciò che il film racconta. Lo facevano – lo fanno tuttora – tanti registi che non lasceranno traccia. Un film in cui uomini e cose emergono da una stratificazione temporale incredibilmente compatta: l’energia del presente è senza remore, senza complessi. I luoghi della storia, i più individuabili e noti, diventano teatro di giochi frivoli, di balli rock, e vengono riadattati e riutilizzati senza la minima riverenza museale, senza che il peso dei secoli, e i connotati storici e artistici, li fossilizzino a propria testimonianza. Eppure in questa continuità si realizzano i contrasti più forti. La dolce vita è un film fondato sul contrasto tra notte e giorno, tra buio e luce, come forse pochi altri. Qui la notte è lenta, tempo di indugi, divertimento, noia, ipotesi, progetti, feste, menzogne, promesse e illusioni, mentre il giorno arriva a smascherarli. Proprio lui, il giorno, è la prova, la verifica, la delusione dei fatti. Per tutto il film quest'alternanza regola il generarsi e il concludersi degli eventi così come dell’intera narrazione.
Di notte ci si incontra, di giorno ci si lascia annoiati l’uno dell’altro. Di notte “appare la Madonna” ai due bambini (che intercedendo per lei chiedono la costruzione di una chiesa) mentre la folla va in estasi collettiva e i malati si assiepano sperando nel miracolo. Ma all’indomani, nella scena successiva, l’euforia generale si sgonfia con una donna che constata la morte di uno di essi. E ancora: di notte Marcello e il padre, euforico e ringiovanito, si intrattengono nel night club, ma questi all’alba cade in uno sconforto inspiegato persino a se stesso e scappa da Roma col primo treno. È sempre notte quando Steiner riceve ospiti a casa, parla della propria famiglia, tutto sembra perfetto, tranne una sua riflessione confidata a Marcello, vaga ma piena di angoscia. È di nuovo giorno quando Marcello viene svegliato dalla telefonata che lo informa che Steiner ha ucciso i figli per poi suicidarsi senza apparente ragione, e l’arrivo della moglie, ignara di tutto e accerchiata dai fotografi, dà i brividi anche per la chiara visione di quello che sarebbe diventato il cinismo e il mercato dell’informazione futuro.
La scena finale, quel dialogo mancato tra Marcello e la ragazza, sembra essere la sola conclusione possibile al film. Divisi da un improbabile avvallamento della sabbia, sul litorale di Roma – che anche senza monumenti non è meno denso di rimandi – fa pensare a un luogo di chissà quali pieghe della storia, di quali sbarchi. Quello che era il posto della storia e del mito diventa il posto delle domeniche al mare degli italiani, delle ferie con famiglia al seguito con l'auto presa a rate. Il vocìo inutile, i dialoghi sconclusionati e il “poco da dirsi” della notte prima, così come le scorribande in macchina tra i castelli romani, ultimo residuo e rifugio di una nobiltà immeschinita, e i proclami forgiati dall'euforia ormai evaporata, vengono spazzati via dal vento e da un sole che a questo nottambulo annoiato danno solo fastidio.
E vorrebbe tanto andare a letto, quando l'Italia che lavora è già sveglia da un po'. Stanco, troppo stanco per voler ascoltare ciò che la ragazza vorrebbe dirgli, tanto ostinata e ottimista, con quel sorriso e quei gesti incomprensibili. Il ciuffo, il foulard da viveur al collo, i colori dell’abito invertiti come in un chiasmo pacchiano con il giorno che nasce e l'ennesima notte in bianco appena trascorsa, il volto cresciuto di quand'era bambino e si scusava per le bugie, sicurissimo che sempre e comunque sarebbe stato perdonato, esigono simpatia. Gli si perdona tutto, come la ragazzina dagli occhi entusiasti e il grande sorriso gli perdona di non voler fare nemmeno i pochi passi che li dividono per ascoltarla. "Ma cosa vuoi mai che ti dica uno come me? Vado a letto... è meglio…", sembra dire nel gesto di coprirsi il volto con la mano, un gesto burlesco e un po' vigliacco come è lui così vestito. Fellini ha realizzato con La dolce vita forse la più efficacie allegoria cinematografica sull'Italia del “miracolo economico” e lo smarrimento del suo stesso sgonfiarsi. Venne girato in pieno “boom”, era il 1959.
Fellini a Roma ci era andato da giovane, mantenendone sempre lo sguardo incantato del primo giorno. E ne è diventata la chiave d’accesso, la chiave di una lettura interminabile al paradossale che la innervava. Nonostante tutto e il suo contrario sia stato detto e scritto, con questo film è riuscito nell’intento di mostrare – senza spiegare – l'Italia di allora. Ha creato un vero e proprio enigma cinematografico, convinto com'era che tutto ciò che si vede e si racconta sia, appunto, un enigma. Ma, in questo caso, senza chiedere soluzione.