Ontani tra Narciso e Penelope
Luigi Ontani (Vergato, 24 novembre 1943), artista, in questi tempi mefitici lo si potrebbe immaginare rinserrato nella bottega che fu del Canova a Roma, oppure nel suo “armistiziale” villino appenninico, il palindromo Romamor, quale proconsole di se stesso, autoesiliato in una sorta di Aion cardinalizio, di dannunzianesimo sospeso, agghindato come un monaco tentato dal sultanato o come un sultano attratto dalla cella. Ontani Narciso e Penelope, intento a filare al telaio noia patrizia, autoscatto allo specchio che lo inghiotte, satrapo adagiato di traverso sulla chaise longue incurante dei fatti del mondo.
Già l’escamotage provinciale, recapito bolognese situato nei pressi del castello Rocchetta Mattei, conduce a una geografia magica attraversata da incantesimi e fantasmi; magione quantomai eclettica nello stile, bizzarria architettonica presidiata dagli ultimi aliti degli alchimisti - superstiziosi medici del secolo scorso affaccendati a dar elettricità agli alambicchi - e inzuppata in una scenografia visionaria, in qualche modo attigua al neogotico cinematografico assai caro a Pupi Avati. Distante qualche chilometro però, come a monito, c’è la casa che fu di Giorgio Morandi e sembra davvero uno scherzo tale spaiato vicinato: lo stridore d’accumulo barocco in sovrapposizione di stili, accostato all’essenzialità della forma, alla siluetta della bottiglia fatta solo di luce e povera materica cosa: porcellana zecchino contro gesso e biacca. Stramberie logistiche dalla medesima zolla.
Dispersivo risulterebbe qui dar conto del primo castellano e della sua stralunata araldica, del gran committente del mausoleo, il pioniere omeopata Cesare Mattei; basti ciò, il luogo, eclettica dimora, come un “palazzo moresco” cascato in Padania, quale segnavia per non smarrirsi, anche se ci smarriremo comunque, come sempre capita ai non esperti, agli avventurieri bendati, a viandanti e cantori trobadorici.
Tornando a bolla e al prestigioso residente in tunica damascata, regnante nella dependance: chi fu, è, sarà mai il postumo e antecedente a tutto Luigi Ontani? Un reiterato bluff citazionista? Oppure un’altra sindone novecentesca posata sulla Storia dell’Arte moderna? Si direbbe sia più artificiere sincretista che artista, artefatto artificioso, talvolta artigianale su commissione dopo l’autarchia giovanile su cartone ondulato – arte povera, era l’antifona - giocoliere di ludi trascendentali, prestidigitatore ieratico, calco uscito fuori dalla propria cera, come una fissità à la Madame Tussauds sotto teca, golem su pellicola, malattia floreale dello specchio. Egli, per restare al mesto presente cronachistico, è ben più di una pandemia: è un atemporale pandemonio. O più correttamente un pan-demone, il pane degli angeli messaggeri, lievito satirico allocato nel piano più alto della pasticceria delle arti, il capriccio e il caglio, boccolo fanciullesco, bocciolo fiorito della natura idealizzata.
Riguardando i suoi tableaux vivants trapelano suggestioni dionisiache mescolate a dolci flagelli pigliati dalla più eterodossa iconografia: il corpo efebico, la carne che si fa strumento e soggetto stesso dell’opera, traversato com’è da un concerto di flauti e sitar guidati dai venti - sbuffi di pettini sui crini del grano maturo - una messinscena dell’opulenza “pagana” e dell’abbandono mistico cristiano; si nota bene nell’evocazione estetizzante di Ontani quel grecismo posticcio anni ’80, scenografia di colonne di finto marmo in realtà a quei tempi polistirolo bene illuminato, memorie di tondelliane fughe in discoteca sulla riviera romagnola, edonismo, baccanale olimpico allorquando il travestitismo pop cercava costumi nel guardaroba del mito; altresì l’infatuazione orientale dell’esperienza beat generation, i viaggi mistici sulla scia di Pierre Loti, insomma divertissement d’esotico gran-tour nel mappamondo hippy, ex voto e ampolle dal fiume Gange, alta erboristeria e micologia prima del ritiro in qualche modo monastico, meditativo ma fuori dal modo, con una babbuccia posata nel mondo e quell’altra chissà dove. Tra le stelle sbrilluccicanti del centauro.
Si pensi al cinema di Derek Jarman – Sebastien e Caravaggio su tutti – e soprattutto, ancora più indietro nel tempo, alla pellicola ontaniana per eccellenza: Il colore del melograno di Sergej Paradjanov. Il film del regista armeno, uscito nel 1968 e censurato dalle autorità sovietiche con l’accusa di visionarietà, è a sua volta una sorta di tableau vivant su celluloide, allegorico susseguirsi di statiche scene altamente simboliche, di criptiche ritualità alterate da prodromi surrealisti. Come un’avanguardia stanca di sé che si riavvolge alla ricerca dell’origine, d’un saldo appiglio ancestrale, aggrappata come può alla radice dell’albero del mondo.
Lasciando correre una lombrosiana somiglianza col barone esoterista Julius Evola - pure lui fu orientalista e artista Dada - Luigi Ontani è una pianta carnivora onnivora che inghiotte ingloba digerisce e restituisce in forma di feticcio laccato il meglio del meglio della letteratura, del pensiero e delle arti, facendone calco sul proprio corpo Giano, doppio o triplo, multiplo infinito trasponibile nel mostruoso, talvolta nel grottesco domato: Salgari Michaux Campana Mishima Klossowski Savinio Bataille Lautréamont Joyce Rimbaud Busi, nelle arti da Guercino a Depero passando ovviamente per Dalì e chissà quanti altri, ma sempre con soavità d’accumulo e capacità d’innesto, la leggerezza d’un fiore nell’ikebana, stelo cinto per il vaso o dimenticato nel prato, giammai con la pesantezza dell’aratro accademico.
Operetta vivente, balocco e giocattolaio, trasformista pur restando identico al proprio stereotipo dato in pasto alle mostre, Ontani ha creato Ontani per partenogenesi attraverso opere d’arte che scientemente ne confermano il conio. Carte, scarabocchi, schizzi trasformati in un bestiario di chimere e totemici falli, in tributi giocando con le parole e le forme, ideando rebus ispirati da un bel diletto, dall’eruditismo casuale pescato nel vaso di Pandora. Come De Chirico, e tutti quegli altri schifiltosi alle mode e al razionalismo, si tratta di diventare genio retrocedendo, giammai seguendo Crono. Sfidare il tempo, non farsi trovare o riconoscere al cospetto delle sue sentenze.
Qui emerge l’altra fondamentale caratteristica – come sempre nel caso di Ontani indistinguibile, o sovrapponibile, fra uomo e opera -, ovvero la vanità. Caratteristica espressa ossessivamente nella persistenza polimorfa dell’autoritratto; non ci si lasci ingannare però dal giocoso cromatismo, dal ludico carnevale di soprammobili in porcellana, la maschera nasconde sempre un elemento tragico e ci vuol poco ad aggiungere una S alla fine: vanitas vanitatum et omnia vanitas. La locuzione dell’Ecclesiaste riguardante la caducità della vita, fornì ispirazione alla pittura del XVII secolo, particolarmente nelle regioni nordeuropee colpite da guerre ed epidemie. Tutto torna e si riavvolge, anche nell’epoca nostra superba, incapace di riconoscere i segni, di tradurli in riti. L’unica cosa interessante nella nostra condizione è il paradosso e in tempo di pestilenza giunge a d’uopo, quasi a soccorso, l’arte buffa di un vero sincretista, salvifica come una mappa in codice, ma altresì enigma meravigliosamente irrisolvibile, balocco passatempo, un bivio nelle tenebre della foresta, la luce della fantasia: così, sognando un castello di marzapane con torri a forma di cremosi bignè , ci si può imbattere nell’artista catalizzatore, autarchico e cosmopolita, l’ultimo dandy Luigi Ontani.
Un sapiente smemorato, come da sua affermazione: "... infatti io l'ho dimenticato a memoria".