Nouvelle Cuisine adieu
La sua era un’antica famiglia di cuochi risalente al XVII secolo, lui ha rivoluzionato la cucina del XX secolo. Paul Bocuse, per molti il più grande chef di sempre, se ne è andato qualche giorno fa – l’11 febbraio avrebbe compiuto 92 anni. Seguendo gli orizzonti spianati da Fernand Point, il padre spirituale della Nouvelle Cuisine, e insieme ad altri giganti come Alain Chapel, i fratelli Troisgros, Michel Guerard e Alain Senderens, Bocuse ha fatto la storia della cucina più importante della Storia, ossia quella francese. Lui che nel suo leggendario Auberg du Pont de Collonges ha conquistato le 3 stelle Michelin nel 1965 e non le ha più perse – unico a superare i cinquant’anni consecutivi – insignito della Legione d’onore nel 1975 dal presidente Valéry Giscard d’Estaing, eletto “Chef del secolo” da Gault & Millau. Lui che ha inventato mille genialate, dalla zuppa di tartufo nero – il piatto del quale andava più orgoglioso – alla spigola ripiena di astice o al pollo cotto nella vescica del maiale. Oltre la logica possono gli intenti, cose che però appartengono di solito agli artisti, non ai cuochi. La sua rivoluzione ha una eco architettonica, Mies van der Rohe, “Less is more”, “meno è meglio”: quindi togliere, sottrarre in una rincorsa ad alleggerire la panna, far evaporare il burro, insomma abbattere le frontiere della cucina classica, pesante, arcaica.
Enzo Vizzari, direttore e padre della Guida Espresso, lo ha conosciuto bene, il ricordo è nitido: “Era un uomo semplice, si definiva un ragazzo di campagna, attaccato alla sua terra. Diceva di non riuscire ad addormentarsi senza il rumore dell’acqua della sua Saona, che gli scorreva oltre la finestra. Poi in realtà era un uomo di mondo, era sempre in giro, però da buon civettuolo amava dimensionarsi a uomo di campagna, come spesso fanno alcuni grandi”. Sottrazione non solo in cucina, anche nello stile personale, d’altronde per chi inventa un verbo, una scuola intramontabile, non può che sottrarsi al baccanare quotidiano della cronaca. “Sì, minimizzava la sua rivoluzione, si indispettiva con chi lo osannava troppo: “Ma non rompete! Esiste una buona cucina e una cattiva cucina, tutto qui” borbottava. Invece no, lui è stato un gigante”. Quasi a sottendere che la scossa vera, l’atto rivoluzionario l’abbia fatto lui, sferzando quel classicismo che dominava da tempo, quelle salse paludose, quei grassi così dichiarati, lui li ha fatti sparire, sottratti alla vista e al colesterolo. “Però poi la cucina classica l’amava – dice Vizzari – e la faceva ancora, in un modo o nell’altro era rispettoso di chi lo aveva preceduto”. Ma quella Nouvelle Cuisine resta insuperata? “Credo proprio di sì, non ho visto altre rivoluzioni di portata così ampia. Le faccio un esempio: in Italia abbiamo una certezza, un prima di Marchesi e un dopo Marchesi. Bene, Gualtiero Marchesi ha portato in Italia i dettami della Nouvelle Cuisine, però adattati al nostro territorio. Questo per dire quanto importante fosse ciò che era successo oltralpe”. Dunque Vizzari arriva alla sintesi: Paul Bocuse sta alla cucina francese come Gualtiero Marchesi sta a quella italiana, “ma tutto, però, ha avuto inizio là”. Ferran Adrià come Bocuse? “Direi di no, non scherziamo. Un altro mondo”. Autre monde, chef. Adieu.