Nostra signora Medea

Qualsiasi forma d'arte che spezza tradizioni e canoni consolidati molto spesso non trova nell'opinione pubblica terreno fertile per il successo. Così è stato per la satira mordente di Giovenale e la letteratura dell'orrore di Poe, per Rembrandt e Vivaldi. Simile sorte toccò a uno dei più grandi tragediografi dell'antichità, Euripide: fiaschi in vita e lode post mortem, a scapito di Eschilo e Sofocle, adulati da morti, ma ancor più da vivi.

Nato in un'isola di fronte all'Attica, Salamina, agli inizi del V secolo a.C., Euripide visse abbastanza a lungo per assistere ai cambiamenti politici e culturali, che mutarono repentinamente il volto della Grecia. Ad Atene conobbe Socrate e fu allievo dei Sofisti, fu il primo nell'antichità a possedere una biblioteca privata. Visse negli anni in cui Fidia lavorò al Partenone e Pericle gestì abilmente il potere. Scrisse nel pieno fiorire della filosofia e della democrazia a partecipazione diretta, di un nuovo modo di fare politica estera, l'imperialismo spregiudicato. Fu ancora ad Atene negli anni della guerra del Peloponneso tra Ateniesi e Spartani (431-404 a.C.), che scosse gli animi e insanguinò la Grecia.

Eppure proprio nei decenni di fermenti politici e culturali senza precedenti, Euripide, aridamente disilluso, non si interessò mai alla gestione della cosa pubblica. I suoi concittadini, perplessi per un teatro radicalmente nuovo, lo considerarono un intellettuale sdegnoso e incapace di coltivare passioni civili. Così sul teatro euripideo e sul suo demiurgo fioccarono critiche, come pure poche vittorie negli agoni tragici. Aristofane, vox populi, nelle Rane è il portavoce della dissacrazione nei confronti del tragico di Salamina. Euripide non piaceva, mise in scena un teatro sperimentale tutt'altro che popolare: nuovi prologhi espositivi sottrassero attesa agli sviluppi del dramma, i dibattiti argomentativi tra un personaggio e l'altro – prima quasi del tutto assenti – costituirono nuovi punti nodali. Esemplare è lo scontro dialettico tra Andromaca ed Ermione, nell'Andromaca. La prima è la sposa di Ettore e concubina di Neottolemo, figlio di Achille, dopo la sconfitta troiana contro i Greci; la seconda è figlia di Elena e Menelao, legittima sposa di Neottolemo. Il dialogo tra le due eroine è incalzante, architettato come un'altalena, che oscilla tra odio e repulsione, compassione e meraviglia. Il senso di pateticità è limpido, l'introspezione profondissima. Entrambe le donne sono vittime della guerra di Troia (riferimento velato a quella del Peloponneso), entrambe mantengono il punto di vista personale, vivono la tragicità del reale allo stesso modo, l'una dalla parte dei vinti, l'altra dei vincitori.

Insieme alle raffinatezze sceniche, fu il mondo concettuale proposto ad avere un impatto forte sulla cittadinanza ateniese. Euripide scelse di non trattare il rapporto tra l'uomo e gli dei, scandagliato da Eschilo, né il vincolo dell'uomo con il suo destino, tematica cardine del teatro sofocleo. Fece un ardimentoso passo in più su un doppio binario: da un lato impone in scena di uomini e donne che si confrontano con se stessi e gli altri esseri umani, compiendo scelte nel solo modo che è spaventosamente loro permesso, il libero arbitrio. Dall'altro la quasi totale assenza degli dei rende inconfondibile la solitudine del singolo davanti alle miserie umane. Da qui nasce il famoso pessimismo euripideo. Da qui la creazione magistrale di un personaggio come Medea, nella omonima tragedia datata al 431 a.C. (nella foto Maria Callas intepreta la Medea di Pier Paolo Pasolini del 1969). Maga orientale, colta e furba, Medea si innamora di Giasone, capo di un gruppo di guerrieri partiti dalla Grecia alla conquista del vello d'oro, gli Argonauti. Portata a termine la missione, la donna lascia la sua terra per amore di Giasone, che la abbandona per una donna più giovane. Tradita ed emarginata, abbandonata dagli dei, Medea compie una scelta radicale, sulla via della vendetta, con spietato raziocinio: uccide i figli avuti da Giasone e fugge via sul carro del Sole. È una delle immagini più forti della storia della letteratura e del teatro, su cui tornarono autori latini come Ennio e Seneca, musicisti come Cherubini e Pacini; Pasolini girò nel 1969 una Medea, che incassò poco e convinse ancora meno, Delacroix dipinse la Furia di Medea. Una fortuna immensa per un personaggio immenso.

La grandezza della Medea e dei drammi euripidei non sta tanto nell'intreccio mitico, ma piuttosto nei ritratti psicologici, sorprendentemente moderni. La capacità dell'autore di scavare nei meandri dell'animo umano, descrivendo di volta in volta sentimenti contrastanti, non ha nessun precedente. La tensione tra volontà e piano divino prestabilito - siamo ancora lontani dalla concetto di provvidenza forgiato dal Cristianesimo -, tra dubbio e irrevocabilità del Fato definisce lo statuto degli eroi e, soprattutto, delle eroine tragiche. Nell'Ifigenia in Aulide si condensano molte di queste coppie polari. Il sangue di Ifigenia, figlia di Agamennone, deve essere versato in onore di Artemide, affinché si plachi l'ira della dea cacciatrice, dopo che proprio Agamennone l'aveva offesa e sfidata. Solo con questo sacrificio, le navi greche arenatesi ad Aulide potranno ripartire per Troia. Ifigenia è condotta ignara all'altare e, compresa la sua sorte, rifiuta di immolarsi tra lacrime e disperazione. Lentamente, dialogando con vari personaggi, comincia a cambiare idea e pronuncia un monologo toccante. Decide di rendere la propria vita per il bene della patria e per devozione filiale, per il giusto corso del Fato e per volere divino. Ha comunque salva la vita, perché Artemide la strappa via dall'altare e la rende sua sacerdotessa in Tauride. Il carattere della giovane non è monolitico, ma si evolve con consapevolezza e senso del dovere: è un'intensa maturazione che Euripide ci riporta realisticamente. Il fascino del mito ha incantato, tra gli altri, Racine e Goethe: quest'ultimo nel 1787 portò in scena questa tragedia in cinque atti, apportando al racconto euripideo delle modifiche.

23-07-2014 | 11:09