Naturalia et Artificialia
Lo studio di Marina Burani è una Wunderkammer reale – cabinets de curiosités – ma anche ideale. Nel senso che la prima (definizione classica) è un’opera d’arte che ha nel collezionista il suo autore, la seconda (meno classica) che ha nella forma mentis dell’artista il rimando costante e imperituro a quello stesso orizzonte: fare meraviglia. Mirabilia che si materializza proprio nell’insieme, spesso tanto caotico quanto disorganico, ed evidentemente fatto di tutto, naturale e artificiale, appunto. Tuttavia la sua apparente eterogeneità non è quello che sembra, infatti basta uno sguardo attento per trovare, nel registro del visibile, ordine e senso. Restituire la ricchezza infinita del mondo, scriveva Adalgisa Lugli, ossia, in questo, restituire il fine ultimo dell’opera d’arte. Cosa che la Burani fa costantemente, sia questo un autoritratto sia questo un dipinto concettuale interamente nero, inviolabile nel suo ermetismo. Un fossile dipinto, prendendo a prestito una definizione di Foucalut, rievoca “nell’incertezza delle sue somiglianze, le prime ostinazioni dell’identità”. Ed è proprio in quelle ostinazioni che – gioco di parole – l’artista qui si ostina: è nel profluvio del passaggio continuo e contiguo di forme che poi ne arriva una unica, sola, quasi caricaturale: l’anamorfosi del mondo. Perché nell’ondivago e poco (apparentemente) coerente andare della Burani c’è la cosmogonia di ogni arte: preghiera, racconto, concetto. Ma anche, insieme, la negazione di tutto questo: “Preferirei non dare una definizione del mio mondo artistico. Definire per me significa terminare il percorso. Spero – spiega la Burani – per tutta la vita, di riuscire a lasciare tutte le porte aperte, a ogni possibilità nell'arte”.
Lo stupore “dichiarato”, è questo il primo elemento che emerge dai lavori di questa artista, stupore fanciullesco, inconsapevole, come se il re fosse sempre nudo, anche quando non lo è. I suoi nudi, però, non sembrano nudi. C’è quasi un pudore primordiale che li permea, una dichiarazione d’intenti di carattere intellettuale che sembra proteggerli. Come se il famoso monito di Roland Barthes sullo stirp-tease – desessualizzare la donna nel momento in cui la si spoglia – fosse in questa produzione artistica prima un avviso di un monito. Per questo non c’è voyeurismo negli occhi di chi guarda, ma altro, tutt’altro. “La luce è ciò che il tempo non riuscirà mai a raggiungere, oppure, per dirla meglio, siamo noi che abbiamo bisogno di ombre per disegnare la nostra luce”. Ma se invece della luce c’è il nero? Come in questo caso? Un nero che è il contrario perfetto del foglio bianco, della paura di riempirlo. “Trovo che affrontare il foglio bianco sia molto stimolante – dice l’artista. Avere davanti a sé il nulla e scalfirlo con un tuo segno dona piacere. È l'idea di possedere un grande potere, l'entusiasmo di amare figure che ancora non esistono”. Il pensiero che diviene idea, la geometria che disegna figure nello spazio o l'imitazione, primo passo della metamorfosi. E ancora la casualità, che determina percorsi insoliti, l'artificio che è la vera natura dell'arte, la poesia come pura forma di espressione. Queste definizioni della Burani solo le sue colonne d’Ercole che, costantemente, cerca di doppiare, per arrivare al punto cruciale del suo racconto per immagini. Da lungo tempo. “Ho deciso di iniziare a dipingere quando sono stata respinta all'esame per la prima media in italiano, per essere andata fuori tema. Perché volevo fare la scrittrice”. Didi Bozzini, il curatore della mostra, lo ha capito subito di trovarsi di fronte a sregolatezza assoluta. E allora ha preso le redini della questione in mano e ha “riscritto” la storia, l’ha plasmata secondo il suo senso. È scomposta la Burani, non è mai dove te l’aspetti, se ne frega delle convenzioni, dipinge per desiderio di libertà. Perché lei lo sa che questa è l’epoca del politically correct. Ma sa anche che se il momento dell’arte continuerà di questo passo – prescindere dal “senso” e fomentare solo inutili provocazioni – non porterà a niente. E allora sì che prima o poi si vedranno i veri mostri. Più neri di queste tele. Più grotteschi di quelli di Goya.