Molière snobbato dal popolo
Quando la commedia il Misantropo di Molière vide la luce – nel giugno del 1666, sicché siamo in ambito di rotondi e luciferini anniversari – la risposta del pubblico fu tutt’altro che entusiasta. L’esplicita critica mossa nei confronti dell’imparruccata ed ipocrita società del tempo, venne paradossalmente snobbata dal popolo ed apprezzata a corte, a testimonianza forse di un certo impaccio trasversale nell’immedesimazione. L’opera, sorta di scoperchiamento del vaso di Pandora, rendeva tuttavia sottilmente ridicolo l’integerrimo protagonista Alceste, attraverso quel trombonesco “non siete voi che mi cacciate, sono io che me ne vado!” sempre inadeguato nei convenevoli mondani. Sbattere la porta, infatti, non muterà di una virgola la stucchevole ritualità dei convenuti restanti. Un po’ come al tempo nostro, nel soppesare la decisione di chiudere il profilo social network per insofferenza, dinnanzi a quel flusso costante di brutture e stupidità. Ebbene, nessuno si accorgerà della dipartita sdegnosa ed il trenino delle vanaglorie procederà nel suo giro in tondo, come se nulla fosse.
La blasonata commedia in versi, recentemente ripresa da un film francese (Alceste à bicyclette, 2013), si offre a molteplici ragionamenti, soprattutto per la patetica verbosità del soggetto principale e delle sue intemerate moralistiche, assolutamente prive di afflato eremitico. Anche nel film di Philippe Le Guay, falsato dalla catacombale voce di Maya Sansa e da certi tediosi francesismi, la pedanteria dei dialoghi pare funzionale al mesto esito. L’incontro tra un attore televisivo di successo ed un teatrante ritiratosi dalle scene, funge da lacerto ad un carosello di impicci nella marittima La Rochelle, replicando per un’ora e mezza l’infinito prologo di Molière: in entrambi i casi, infatti, la prevedibile evidenza dell’epilogo fungerà da pretesto per posticipare sadicamente diniego e dipartita.
Tornando alla pièce teatrale, pare che, dietro la scocciata maschera di Alceste – ingombrante protagonista della commedia – si nascondesse proprio Molière, stoccatore indefesso delle umane vicende e probabilmente abbasta autoironico da mascherarsi senza troppe cautele. Nell’asfittico ed ingessato impianto narrativo, a tratti noioso visto che subito l’antifona è palesata, i personaggi evanescenti e la trama appena abbozzata sono funzionali ad ingigantire la figura del misantropo. Egli, intollerante dinnanzi ai panegirici menzogneri dei cortigiani, s’incaponisce nell’invettiva, convinto di poter tenere testa con la franchezza a quell’incessante simulazione sociale. Addirittura! Come se la vita non fosse per la gran parte, oltre a sonno, un distillato d’ipocrisie.
Pervaso da un furore ben poco accomodante, Alceste si scoprirà tradito proprio dalla condotta della donna amata, finendo quindi in crisi intima, a disagio coi propri supponenti principi. Ciò che con predeterminazione infastidisce, nella commedia, è la contiguità forzata e reiterata tra due visioni del mondo inconciliabili. Molière, a differenza di altri spiriti solitari come Sgalambro, Ceronetti, Schopenhauer o Cioran, tende a parodiare la figura del misantropo, esasperandone attraverso il confronto serrato con la mondanità, il tratto paranoico. Non v’è traccia di quell’aura di distacco bramata dai filosofi, tant’è che Alceste dopo il compromesso per amore sparirà nel finale, ponendo l’accento sul tradimento di tutti gli altri. Povero incompreso. Verrebbe da dire, con cinismo: quella era la porta.