Mille modi per dire Michelangelo

Dopo la prima parte di questo articolo dobbiamo chiederci: perché questa differenza di scrittura fotografica? È una scelta o semplicemente un fatto tecnico?

Per capire dobbiamo provare a far riferimento ad alcuni esiti dai quali emerge, nella cultura francese come in quella italiana, un confronto netto fra coloro che esaltano l’arte di Raffaello e quelli che invece esaltano quella di Michelangelo. Nel Journal di Delacroix,  ad esempio, si legge: “Per parlare soltanto di Raffaello, che si può considerare il rappresentante della pittura a quel tempo, il suo genio fortunato gli diede l’agilità necessaria per sfruttare tutto ciò che era stato dipinto fino  a lui […] e l’audacia che si conviene ai tentativi d’un uomo originale destinato ad ampliare i confini dell’arte. Ma tali confini fissati dal suo genio e da quello dei contemporanei egli dovette quasi oltrepassarli”. Invece di Michelangelo nel 1853 scrive: “Mi son detto spesso che, nonostante l’opinione che egli poteva avere di sé, Michelangelo è più pittore che scultore. Nella sua scultura, egli non procede come gli antichi, cioè per masse; sembra sempre che abbia tracciato un profilo ideale che si sia sforzato di riempire, come fa un pittore. Si direbbe che la sua figura o il suo gruppo gli si presenti solamente da una faccia: come a un pittore. Quando bisogna cambiar punto di vista, come lo esige la scultura, ci s’accorge per conseguenza delle membra storte, dei piani che mancano di precisione, insomma di tutto ciò che non si vede negli antichi”.  E poco dopo: “Dalle parti lasciate allo stato d’abbozzo, dai piedi immersi nello zoccolo e dov’è mancata la materia, si vede chiaramente che il vizio dell’opera deriva più dal modo di concepire e d’eseguire che dall’esigenza straordinaria d’un genio fatto per raggiungere punti più alti, genio che si sarebbe fermato senza contentarsi mai. È più probabile che la sua concezione fosse vaga […] se spesso s’è fermato preso dallo scoraggiamento, vuol dire che effettivamente non poteva fare di più”. Dunque un giudizio netto: Raffaello, il genio, l’equilibrio, il ritorno all’antico; Michelangelo un genio incompiuto, una volontà che va oltre le proprie reali capacità.

Proviamo adesso a leggere qualche passo del Journal dei fratelli Edmond e Jules de Goncourt che il 4 maggio del 1867, a proposito della Trasfigurazione di Raffaello, scrivono: “L’impressione più sgradevole di che possa dare un pittura all’occhio del pittore è di una carta dipinta. Impossibile vedere un maggior contrasto e un più violento disaccordo di toni blu, gialli, rossi e verdi […] ma lasciamo il miserevole colorista, vediamo il capolavoro, il preteso sursum corda del cristianesimo” e qui inizia un’analisi minuziosa di tutte le contraddizioni del dipinto e alla fine: “In Raffaello la resurrezione è puramene accademica, ovunque emerge il paganesimo, esplode in primo piano in quella donna, un pezzo di statua antica, questo inginocchiarsi pagano di cui il Vangelo non ha mai parlato”. Così si conclude “non conosco un tela che abbia tradotto (il soprannaturale) in una pagina più banale e in una bellezza più volgare”.

I Goncourt propongono un giudizio su Michelangelo comune a molti intellettuali del loro ambito, ed ecco dunque un passo del Journal del 23 maggio 1864 che riferisce di una conversazione fra Sainte Boeuve, Taine e Renan. Sainte Beuve rimprovera a Taine di aver presentato la sua “Storia della letteratura inglese” all’Accademia. “A dei nemici, a degli inferiori”. Taine si difende abbastanza male. Poi la discussione cresce ed egli dice che vi sono quattro grandi uomini, Shakespeare, Dante, Michelangelo e Beethoven. “Sono le quattro cariatidi dell’umanità”. Ma tutto questo è la forza, dice Sainte Beuve. “E la grazia?” chiede Renan. “È Raffaello!”.

Insomma Michelangelo corrisponde alla forza, Raffaello alla dolcezza. Per esserne certi basta riflettere su alcuni passi dove Michelangelo è usato proprio per indicare la forza. Così, a proposito di una visita il 17 aprile 1886 nello studio di Rodin e delle sue Porte dell’inferno, il debito dello scultore con Michelangelo è subito notato, infatti è il “movimento che lo scultore (Rodin) cerca di trarre da Michelangelo”. In un'altra occasione i Goncourt dialogano, il 5 marzo del 1876, con Victor Hugo che manifesta le sue preferenze nell’arte, il suo interesse per Michelangelo, Rembrandt, Rubens, Jordaens, che, fra parentesi, mette al di sopra di Rubens; insomma Hugo, una delle figure guida nel Journal dei Goncourt, propone gli artisti fondamentali della cultura dell’arte. In diversi casi i Goncourt usano riferirsi a Michelangelo e alla sua pittura, così ecco come viene descritto Robert Caze il 18 marzo 1886: “Capelli inanellati come i capelli serpenti di una testa di Gorgone, le occhiaie scavate in modo misterioso e profondo, occhi pieni di ombra come quelli di una sibilla in un dipinto di Michelangelo, la bellezza di lineamenti greci in un viso dalla carne nervosa, tormentata”. E del resto il 7 novembre 1870, descrivendo proprio Victor Hugo, i Goncourt lo confrontano a Michelangelo, evocano quindi i suoi capelli dalle bianche ciocche ondulate “come quelle dei profeti di Michelangelo”. Insomma, per i due fratelli, Michelangelo è sinonimo di forza, come per Rodin, come per la descrizione fisica ma insieme metaforica del genio di Hugo.

Ma allora come passare oltre la tradizione letteraria francese dove Raffaello è nel segno della tradizione classica ma anche della secchezza accademica, mentre Michelangelo è di volta in volta o simbolo di forza oppure di incapacità e di incompiutezza nell’invenzione plastica? Ci possono aiutare due dipinti in particolare. Uno, quello di Horace Vernet del 1832 (fig. 1), dal titolo Raffaello in Vaticano dove il pittore francese, rappresentando la corte interna del palazzo, mostra Raffaello al centro, in secondo piano, circondato da assistenti e ammiratori. Il volto, ripreso dall’autoritratto della Stanza della Segnatura, attorno la varia umanità delle donne e degli uomini; sopra, in alto a sinistra, il Papa che osserva. Infine, in basso a sinistra, in primo piano, ecco un corrusco Michelangelo con un libro di disegni e un abbozzo di una statua in mano e una spada infilata nell’album dei disegni. Due caratteri, due figure, un preciso giudizio, dolcezza contro terribilità, per riprendere un termine vasariano. L’altro dipinto è di Domenico Morelli e ha per titolo Michelangelo rifiuta la collaborazione al duca Alessandro de’ Medici per la fortificazione di Firenze (fig. 2). Vediamo al centro il Duca seduto davanti a una planimetria e rivolto a sinistra verso un Michelangelo corrusco in volto, la barba lunga, che leva la mano destra in segno di diniego. Insomma, Michelangelo repubblicano, Michelangelo antagonista del Duca. Potrà avere avuto tutto questo qualche effetto sui fotografi?

Non vi possono essere dubbi sul proseguire questa doppia interpretazione anche in tempi più recenti. Infatti anche un  fotografo come Yossuef Nabil in You never left (foto sopra) evoca la Pietà di San Pietro ma, ancora una volta, trascrivendo la composizione dei corpi in una lingua sottilmente accademica. Ma torna ancora la lettura del Michelangelo come portatore della rivoluzione in scultura: ecco dunque , il Michelangelo neoellenista del trittico di Luca Pignatelli (fig. 3) affiancando due durissime immagini dei Prigioni al Fauno Barberini che dimostra il peso della tradizione ellenistica per Michelangelo. Così forse possiamo dire che la fotografia della metà dell’800 a Firenze e Roma percorre le strade interpretative che la critica d’arte ha proposto in Francia e in Italia. Lo stile scelto dai fotografi è qualcosa di più di una soluzione tecnica, è un discorso sui significati dell’immagine. Sarà bene ricordarlo.

 

(Fine)

 

11-07-2014 | 12:15