Mickey Rourke, mezzo divo, mezzo pugile

Lorenzo Longagnani

Quando una persona porta dentro un grande disagio, sia esso celato o manifestato, volente o nolente, presto o tardi, in qualche modo reagirà. I comportamenti più frequenti a questo dolore dell’animo sono il pianto sommesso, la reazione energica, disperata e vigorosa, la depressione e anche l’autodistruzione, più o meno rapida e controllata. Credo che il protagonista di questa storia le abbia provate tutte e continui a provarle tuttora. In ogni caso una persona che prova un disagio grande arriverà al punto di doverlo espellere. Occorre estirpare quel dolore radicato guardandolo negli occhi e affrontandolo con l’intento di gettarlo fuori dalla propria anima. Lo sport, e la boxe in particolare, è un ottimo viatico per eliminare l’angoscia e le scorie dalle vene sotto assedio.

Mickey Rourke di disagio ne ha sempre avuto tantissimo. Nasce a New York il 16 Settembre 1952 ma si trasferisce con la madre e i fratelli a Miami molto presto per sfuggire alla violenza domestica di un padre alcolizzato. Il suo disagio interiore inizia a manifestarsi molto presto attraverso risse di strada e botte da orbi condivise con altri suoi coetanei, altrettanto problematici. È così, tra occhi neri fatti e subiti, che decide di entrare in una palestra di boxe, attratto dalle competenze, e dal livello di difficoltà, che questa “arte” comporta. La palestra è di buon livello, frequentata da allenatori competenti e pugili professionisti di rilievo; Mickey Rourke impara e presto si fa notare per le proprie capacità e, soprattutto in prospettiva, per le potenzialità fisiche. Tra i dilettanti vince quasi sempre, facendo così bella figura da diventare lo sparring partner abituale dell’idolo di Miami, il campione mondiale dei welter Luis Manuel Rodriguez, uno che, vanamente, aveva tentato la scalata al titolo di Nino Benvenuti nel 1969. Mickey Rourke è un giovane pugile dalla buona stoffa, vince venti incontri dei ventiquattro disputati denotando una determinazione fortissima nel perseguire la vittoria. Gli addetti ai lavori più esperti della palestra sono concordi ed entusiasti nel portalo a fare il passo che conduce allo sport professionistico. Il candidato, tuttavia, non è completamente sicuro di volere intraprendere questa strada in cui dolori fisici e sacrifici sono ovvi, così si prende il tempo di riflettere trincerandosi dietro alcuni infortuni, più o meno enfatizzati, subiti negli ultimi incontri. Tecnicamente non rifiutò mai, praticamente non lo videro più. A lui non interessava diventare professionista, ancora molto lontano dal divenire un campione, a lui interessava capire se avesse potuto esserlo. Inoltre sai che noia, per uno cosi passionale, fare tutta la vita la stessa cosa. Un uomo che vive totalmente nella passione, infatti è pieno di vizi e di “casini”, e che non può fare a meno di assecondarla: gusti apparentemente semplici come la Boxe, le Harley, la recitazione e la voglia di far baldoria.  Meglio una professione che ti permetta di aiutare il cervello, non di danneggiarlo, una professione che ti permetta di vivere e conoscere molti più mondi, anche agli opposti tra loro, come durante la preparazione di “Barfly”, in cui, molto aiutato dall’innata propensione al bancone del pub, interpreta un alcolizzato molesto come fu Bukowski. Ma lo troviamo anche nei panni di un cinico avvocato dall’aurea noir, diretto da pezzo da novanta quale Francis Ford Coppola per la pellicola “The Rain Maker”, oppure, per esempio, quando interpreta tre film basati sulla sua  infinita adorazione per le motociclette custom americane: ebbene, sono diventati tutti e tre vere “leggende” tra il pubblico a cui si rivolgono. “Rusty il Selvaggio” è un indubbiamente un cult, e lui interpreta il coprotagonista eroico (e incompreso) ancora davanti alla telecamera del maestro Coppola. Negli altri due, invece, è riuscito a diventarlo in un modo che incredibile tanto sembra farsi scherno di chi non ha mai apprezzato o riconosciuto il talento artistico di Rourke. Si tratta rispettivamente di “Harley Davidson & The Marlboro Man” e di “ Orchidea Selvaggia”, due film dai copioni scontati e bizzarri, divenuti seguitissimi grazie alla bellezza delle motociclette che egli stesso ha pensato, progettato, commissionato ed infine utilizzato per le riprese. Impensabile. Tornando alla cronologia della sua vita, Mickey, invece di passare pugile professionista, chiede un piccolo prestito alla sorella e va a New York. Si iscrive e frequenta la “New York Film Accademy”, importante scuola d’arte americana in cui spicca per un talento talmente conclamato da portarlo, nel 1986  e dopo due pellicole minori “di prova”, al fianco di una famosa attrice, Kim Basinger, a realizzare un film popolarissimo come “9 Settimane e mezzo”, e poi via, solo pellicole di successo di registi fuoriclasse. Ricordiamo in particolare ”Angel Heart” del 1987, al fianco di Robert De Niro, entrambi diretti da Alan Parker, e ancora protagonista ne “L’anno del Dragone” del compianto Michael Cimino, visionario ed incompiuto regista. La sua fama ormai mondiale lo porta però anche ad essere noto per insopportabili atteggiamenti da star isterica sui vari set che calca e, dopo che la stampa internazionale mette in risalto le sue amare vicissitudini coniugali con la splendida modella Carrè Otis, sulla sua carriera in volo sembra calare un pesantissimo sipario. Hollywood non lo cerca più e lui reagisce non cercando più Hollywood. Si chiude in se stesso e in un tunnel di droghe e alcool che ne delineranno per sempre la reputazione e la carriera fino ai giorni nostri. Per colpa sua si ritrova di nuovo solo, abbandonato dalla moglie e dagli amici, senza soldi ma troppo a terra per ricominciare a lavorare. E’ qui che ha l’illuminazione di allungare una mano verso una vecchia luce che ricorda essere calda e conosciuta, un appiglio duro ma solido a cui aggrapparsi per risalire: la boxe. Torna in palestra e si allena duramente, stavolta, più grazie alla sua notorietà, passa professionista. Accetta un incontro nel 1991 a Fort Lauderdale (Florida), quattro round da due minuti contro Steve Powell, un pugile professionista “nel perdere” che batte ai punti. Il secondo incontro è un anno dopo a Miami Beach, affrontando Francisco Harris, un altro non proprio irresistibile sfidante con cui ottiene un pareggio fortunato. Non sazio, affronta sei mesi più tardi, nel Giugno 1992 a Tokio, il tristissimo pugile Darrell Miller che sconfigge al primo round in un match che è difficile definire boxe. Sono tutti incontri di basso livello svolti in ambiti favorevoli a Rourke in cui la gente si diverte più a urlare, inveire e fischiare che a seguire le gesta dei contendenti. Ma Mickey Rourke non ha nessuna intenzione di mollare questo circo mediatico in cui regna perfettamente, così, nel dicembre, sempre del 1992, vola ad Oviedo, in Spagna, per affrontare Terry Jesmer, altra comparsa del ring sconfitta ai punti dopo tutte quattro le riprese. Nell’Aprile 1993, sei mesi dopo, a quarant’anni, affronta a Kansas City il bravissimo perditore Tom Benthey, che va giù per K.O. alla prima ripresa per la gioia di Rourke (che ha già la lingua fuori). E ancora, due mesi dopo a Joplin (Missouri) Bubba Stoots, un nome una garanzia, battuto alla terza per K.O.. Nel Novembre dello stesso anno l’incontro più vero ed arduo della sua carriera da sottoclou. In Germania, ad Amburgo si batte contro Thomas McCoy, avversario il quale sembra più un attore che interpreta un pugile che un pugile vero. Si ha l’impressione che tragga più vantaggio nella vittoria di Rourke che nella sua. Infatti alla terza ripresa va al tappeto per un K.O. definitivo. Nel settembre 1994 tocca a Sean Gibbons fare da comparsa, a Davie in Florida. L’incontro termina con un pareggio e, alla soglia dei quarantadue anni, Philip Andrè Rourke Jr., in arte Mickey, sembra finalmente appagato delle botte date e prese e del palmares che può vantare e si ritira dal pugilato professionistico. In forma, e saggiamente consapevole di essere infinitamente più bravo come attore che come boxer, si sottopone a interventi chirurgici atti a nascondere le tumefazioni del viso e a rilanciarsi nel mondo del cinema. Nonostante gli interventi ottengano esiti mostruosi, i produttori di Hollywood lo riprendono a bordo, consentendogli di recitare in film d’azione con ruoli minori per rimettersi in carreggiata. Dopo “Double Team” con Jean Claude Van Damme, “Carter” di Sylvester Stallone, “la Promessa dell’amico”, diretto dall’amico Sean Pean, riceve due offerte significative: la prima è quella del ruolo di un divertente e spietato assassino nel film fumettato “Sin City” di Robert Rodriguez, pellicola ad episodi in cui Rourke è uno dei personaggi principali, ma soprattutto “The Wrester”, pellicola del 2008 in cui Mickey Rourke sembra interpretare allegoricamente se stesso ma nei panni di un ex lottatore di wrestling alle prese con una vita disagiata come poche. Ottiene un grandissimo successo tanto da ritirare un Golden Globe e sfiorare un Oscar, soffiatogli proprio dall’ amico fraterno Sean Pean. Mickey Rourke, quest’uomo combattuto e pieno di disagio nel cuore è riuscito a risorgere ancora. Nel 2014, a sessantadue anni, gli viene proposta un’esibizione di boxe in Russia, sponsorizzata lautamente dal magnate russo Vadim Kornilov, talmente fan di Rourke da volerlo vedere sul ring nonostante possa morirci sopra tanto è consumato. Rourke tuttavia si presenta dimagrito e tonico e vince quest’autentica pagliacciata, molto più simile ad un match di lotta, alla seconda ripresa per K.O. contro Elliott Seymour, uno che, per come si fa picchiare dal vecchio Rourke, avrebbe meritato davvero un’ Oscar. Si parla di altre esibizioni per il futuro, ma ciò che conta è che Rourke sia tornato ad avere una carriera cinematografica stabile: il talento non gli manca, tutto il resto invece sarà una sorpresa. 

 

 

13-11-2019 | 15:14