Marchesi si nasce, cuochi si diventa

 

Che cos’è un maestro? Secondo il filosofo Aldo Giorgio Gargani, “il luogo dove una verità diventa la norma di se stessa. La figura del maestro è la condizione della possibilità del verum che diventa index sui”, fondando il paradigma in base al quale lo si riconosce e lo si giudica autonomamente. Ebbene, questa verità autoevidente nella cucina italiana porta un unico nome, quello di Gualtiero Marchesi. Il Maestro di Carlo Cracco, Davide Oldani, Paolo Lopriore, Enrico Crippa, Andrea Berton, Matteo Baronetto, ma soprattutto il paesaggio concettuale della nostra contemporaneità, ammobiliato delle sue intuizioni e della segnaletica di un lessico stringente. Non c’è bisogno di uscire dal perimetro segnato dal suo nome per vagabondare tra le punte più aggettanti dei nostri talenti giovanili, che ne discendono per via diretta e non solo. Diverse generazioni Marchesi che comprendono anche giornalisti e gastronomi instradati sulle guide solide e binarie delle sue intuizioni.

Chef index sui ma anche cuoco non cuoco, Marchesi negli anni ha continuato a gettare nella fornace del suo talento palate generose di suggestioni culturali a tutto campo, dalla musica, familiare grazie alla moglie pianista, alle arti visive, coltivate con interpreti come Gillo Dorfles, tenendo a battesimo il métissage interdisciplinare dell’unico fuoriclasse mai transitato per le sue cucine, Massimo Bottura: una mano sulla tastiera, l’altra sul piano della stufa. Il suo ritratto emblematico con la giacca da chef socchiusa a rivelare lo smoking con il papillon nero vale come una dichiarazione di poetica su una cucina che ha squarciato il velo sulle sue ambizioni, insieme ai muri che soffocavano le sue coreografie. Se i familiari vivano dei métiers de la bouche, è la prima cosa che chiede agli interlocutori sul lavoro. Perché lui, milanese doc, classe 1930, fin da bambino si è baloccato nella sala giochi del ristorante famigliare, la tavola calda e fredda dell’Albergo Mercato di Milano (nelle cui camere era nato), niente più che una buona trattoria. Eccolo poi ragazzo bene con una passionaccia per le casseruole, acutizzata dal passaggio al Kulm, il migliore hotel di St. Moritz. Tanto da frequentare l’alberghiero di Lucerna e dopo il ritorno a casa, portare in tavola i primi piatti d’autore in quello che dal 1957 era diventato un ristorante. Un assaggio di successo che non fece che acuire il suo appetito di sapere, tanto da deciderlo a trasmigrare in Francia alla corte dei grandi. Ledoyen a Parigi e le Chapeau rouge a Digione, poi Jean e Pierre Troisgros a Roanne. I primi già all’opera nel tentativo di rinnovare le vetuste tradizioni regionali alleggerendole, naturalizzandole, professionalizzandole. De-etnicizzandole, insomma, anche grazie alle suggestioni giapponiste, esplorate in largo anticipo sui tempi (e mutuate dal gran lombardo con profondità inusitata). Ma anche i pionieri del servizio al piatto, evoluzione in senso grafico delle architetture conviviali, presa in prestito dai self service in un’avveniristica contaminazione fra alto e basso. Cosicché le avanguardie anni 0 suonano come un remake del parkour creativo di un manipolo di ex ragazzi canuti. 

“Adesso è il momento, ho capito”, dice prima di lasciare Roanne. “Ma che cosa?”. “Vedrete”. 

Nel 1977, rondine solitaria nel cielo degli anni di piombo, alza le saracinesche il suo seminterrato deluxe in via Bonvesin de la Riva: il ristorante, stellato l’anno dopo e bistellato a stretto giro, nel 1985 si aureola della massima costellazione, primo assoluto nel Belpaese. Gualtiero Marchesi viene ribattezzato il Pinturicchio dei fornelli per la sua sensibilità estetica, di stampo marcatamente apollineo, e getta le fondamenta a presa rapida della Nuova Cucina Italiana, che recupera l’afflato al rinnovamento di quegli anni, senza ricalcare pedissequamente i decaloghi francesi. Un sogno che nel 1993 si trasferisce con la complicità dell’amico Vittorio Moretti all’Albereta, elegante villa fra le colline della Franciacorta (ma oggi Marchesi dirige anche l’Hostaria dell’Orso a Roma e il Marchesino a Milano). 

Le parole d’ordine nel tempo seguiteranno ad evolvere, sempre graffianti e puntuali, spesso propalate da libri miliari. Nello sforzo di concettualizzare i suoi piatti, Marchesi teorizzerà l’opposizione fra cucina timbrica e tonale (una metafora musicale sull’importanza delle cotture separate, che preservano il gusto naturale degli ingredienti e propiziano una diversa temporalità della degustazione, quasi narrativizzata), di testa o di gola (rivelandosi in fondo un cuoco neoplatonico, che subordina il gusto alla vista e all’elaborazione razionale nella gerarchia dell’estesia). Il suo fine è orchestrare una Cucina Totale, che oltre alla preparazione e alla presentazione dei piatti comprenda la coreografia del servizio, l’estetica delle stoviglie e delle posate. In armonia con quell’ “idea wagneriana” che a detta di Achille Bonito Oliva ha attraversato tutta l’arte contemporanea, “riguardante la possibilità di un evento creativo capace di totalizzare dentro di sé tutti i linguaggi e le forme, in modo da affermare una filosofia dell’arte fondata sull’intreccio e sullo sconfinamento”. Fino all’iconofagia deleuziana e pre-botturiana del Dripping di pesce ispirato alle tecniche dell’espressionismo astratto. L’ultimo grido però è quello di Meno Cucina, esito finale e radicale di una pulsione minimalista mai paga. Perché il grande cuoco è quello che sa dove tagliare, fino all’utopia del mono-ingrediente: less is more anche e soprattutto nel Bauhaus della gastronomia. 

Ma Marchesi è sempre stato attento a bilanciare l’effetto di novelty del suo movimento perpetuo con il richiamo ad un codice preesistente, quello della cucina regionale italiana, cui non ha mai smesso di rendere omaggio. Giacché “il tipico è anche mitico”, secondo il verbo di Thomas Mann. I più grandi piatti del suo straordinario repertorio, dalla costoletta puzzle al raviolo aperto (lo stesso gesto emblematico della giacca sbottonata), si spingono oltre il restyling “redazionale”, centrato sui refusi del gusto e sulle goffaggini dello stile, per trasfigurare la ricetta in qualcosa di originale e originario. Applicando inconsapevolmente le teorie di Sklovskij sulla dealgebrizzazione quale procedimento chiave dell’arte, sempre tesa a ingaggiare rocamboleschi détours dall’ovvietà al fine di sottrarre l’esperienza all’usura del trantran quotidiano e rendercene così una percezione nitida e impattante, nella solidarietà definitiva fra tradizione e tradimento. Il risotto oro e zafferano, con la sua vetruviana quadratura del cerchio, ne offre una conferma dalla serenità ineffabile. Dove l’affiorare rotondo dell’archetipo del Mandala dagli spigoli metallici del parallelepipedo giallo segue il canovaccio junghiano della ricomposizione dei contrasti in un’unità superiore. Che parla della cucina italiana come delle lacerazioni della storia politica e sociale con terapeutica bellezza. Perché anche questa, in fondo, è la Cucina Totale. 

(Powered by Alessandra Meldolesi for The Club)

16-11-2013 | 12:01