L'orizzonte di Dino Buzzati
Le notti nella redazione milanese del Corriere della Sera sembrano tutte uguali. Durante il giorno, che è il tempo degli avvenimenti, quindi della notizia, è ammesso soltanto il brusio della carta e dei pennini. L'atmosfera è militaresca, le regole redazionali seguite alla lettera, che poi è quella degli incipit fatti e disfatti dai redattori. Durante la notte invece piomba un silenzio strano, il silenzio dell'abitudine e della noia. Fuori ci sarebbe pure una città, altri uomini e donne, storie che si fanno. Ma al civico 28 di via Solferino una cosa soltanto è importante: che il giornale esca regolarmente e che sia fatto al meglio.
Gli anni Trenta stanno per finire, la Seconda Guerra invece è lì lì per cominciare. Dino Buzzati al Corriere è arrivato giovanissimo nel 1928. È ancora uno studente di giurisprudenza ventiduenne quando riesce ad entrare come praticante. Poco loquace e ancor meno opportunista, Dino fatica a dimostrare il proprio talento. Si occupa di cronaca nera, bivacca in Questura in attesa di notizie di rilievo, passa nottate intere in redazione a fare quei piccoli lavori che di certo non lasciano il segno. “Cretinetti” lo chiamano i colleghi, che non capiscono come si possa mancare così di ambizione e al tempo stesso essere puntuali e metodici.
È nelle ore notturne che il giovane cronista sente distintamente andar via un pezzo di vita. Ci pensa e ci ripensa: basta poco, pochissimo, è sufficiente rinunciare al cambiamento uno, due, tre giorni perché le cose vadano avanti senza arrestarsi. Molto spesso Dino immagina, forse ne è certo (chi lo sa?), che avrebbe consumato i suoi giorni nel retrobottega della vita; una bozza dopo l'altra, un titolo dopo l'altro, un piccolo fatto di nera dopo l'altro. Si sente in un certo modo un militare; rispettoso delle regole, incasellato in un senso che non coglie ma che lo rende riconoscibile: è un cronista del Corriere della Sera. Mica male, dopotutto. Ma gli basta?
E poi c'è quell'idea che lo martella: l'idea affascinante e pericolosa che qualcosa di bello, qualcosa che dia senso a tutto ciò che viene prima, cioè all'attesa, debba presto o tardi succedere. È in fondo questo il meccanismo perverso della vita: sperare che le cose fatte si rivelino sensate, in una certa misura utili a sé e agli altri. Buzzati ci pensa e capisce che in fondo, nell'esistenza ad orario delle città, non è il solo a vivere quella faccenda, ad avere quei timori.
Decide quindi di scrivere la storia di Giovanni Drogo, un giovane ufficiale fresco di nomina che per il primo servizio viene spedito in un avamposto ai confini settentrionali del Regno. La Fortezza Bastiani è ormai una costruzione quasi inutile, un luogo in cui gli anni passano al ritmo delle rigide regole militari. Di fronte è il deserto, quello vero, quello che non lascia vedere la fine e che i nemici non si azzardano ad affrontare. Quei nemici sconosciuti che tutti chiamano Tartari e che dànno il nome all'immensa pianura: il deserto dei Tartari.
Giovanni arriva con l'entusiasmo degli inizi; dopo anni di teoria è finalmente giunto il momento della pratica: è il principio della sua vera vita. Che però non rassomiglia affatto a come l'aveva immaginata. La Fortezza infatti non è quel prestigioso avamposto che aveva sognato; il servizio non esaltante come se l'aspettava; i colleghi mica degli eroi pronti alla guerra. Ecco allora che appena arrivato vuole già tornarsene indietro. Ciò che si è lasciato alle spalle, cioè la sua città, gli affetti, le abitudini, non gli sembra più così male. Chiede quindi di essere trasferito immediatamente.
Eppure c'è quel deserto, quel maledetto sterminato deserto dei Tartari che vorrebbe vedere almeno una volta prima di partire. La sera stessa del suo arrivo, grazie all'aiuto del tenente Morel, Drogo riesce a salire sul ciglio delle mura e a dare un'occhiata. Non c'è niente. Soltanto qualche roccia a nascondere l'altra parte della pianura. Dicono che ci siano solo sassi, che non si veda altro fino all'orizzonte. Dicono. Ma Drogo non vede con gli occhi suoi; non ha prove. E dicono pure che questi Tartari esistano per davvero e che prima o poi marceranno contro la Fortezza. Dicono. Ma se è vero che esistono i Tartari, allora la guerra è possibile. E se la guerra è possibile, allora forse vale la pena di attendere.
Buzzati ci pensa e ci ripensa nelle nottate in redazione all'idea pericolosa, all'attesa che non può non essere premiata dall'andare delle cose. La sua Fortezza Bastiani, che è pure quella dei suoi colleghi e che somiglia incredibilmente a quella di tanti altri, insomma alla nostra, è fatta di notizie e titoli. Altri ritmi, altre regole. L'assurdo però è proprio identico, quello è uguale per tutti: basta poco, pochissimo, è sufficiente rinunciare al cambiamento uno, due, tre giorni perché le cose vadano avanti senza arrestarsi. Basta il pensiero improvviso di un deserto e di un esercito là in fondo da qualche parte. E poi la speranza dell'abitudine a ricordare che oggi è così ma un giorno potrebbe essere meglio.