L'origine de "Lo straniero" di Camus

Lucien si svegliò alle tre del mattino per raggiungere a piedi la prigione “Barberousse”, che si trovava dall'altra parte di Algeri. Era quasi l'alba quando arrivò e il cortile era già pieno di gente. Non aveva mai assistito a un'esecuzione. Ma voleva guardarlo dritto negli occhi, questo Pirette. Voleva guardare negli occhi l'uomo che era stato capace di uccidere a colpi di martello i due proprietari della fattoria in cui lavorava e i loro tre bambini. Ed era convinto che la pena fosse persino generosa per quella bestia.

La cosa fu più veloce di quanto immaginasse, questione di qualche minuto. Tutto andò per il meglio: la macchina non si inceppò, la testa di Pirette rotolò via e la giustizia fu portata a compimento. Alla fine dello spettacolo Lucien rincasò. Era livido in volto ed ebbe bisogno di sdraiarsi. Così fece ma la stanza cominciò a ruotare vertiginosamente. Fu costretto ad alzarsi per vomitare diverse volte. Infine, stremato, si addormentò. Di ciò che aveva visto quella mattina non volle mai parlarne né a sua moglie né a nessuno.

Albert Camus apprese questo episodio che era ancora bambino. Quando nel 1914, pochi mesi dopo l’esecuzione di Pirette, suo padre Lucien morì da soldato nella prima battaglia della Marna, aveva appena un anno. Sua madre, quasi muta, e sua nonna, impermeabile a ogni emozione, non avevano saputo dirgli quasi nulla di lui. Ed è curioso che decisero di raccontagli proprio quel fatto.

La sera in cui ascoltò questa storia per la prima volta, suggestionato dai dettagli macabri, il piccolo Albert sentì una specie di nausea ed ebbe un incubo: alcuni uomini venivano a cercarlo per ghigliottinare pure lui. Queste immagini, questa sensazione di impotenza, di attesa dell’inevitabile, gli rimasero impresse nella memoria e ritornarono spesso nelle notti dell’infanzia e dell’adolescenza. Fino a quando, raggiunta l’età adulta, l’angoscia per quell’evento decisamente improbabile fu soppiantata dalla presa di coscienza di un paese che gli presentava la pena di morte come ordinaria, vicina, tutto sommato possibile anche per chi, come lui, apparentemente non aveva nulla da temere. Soltanto così gli incubi svilirono e terminarono: di fronte alla realtà. Tuttavia, la speciale inquietudine che lo aveva invaso tante e tante volte da ragazzo rimase l’unico legame con quel padre sconosciuto, una forma di misteriosa eredità, di necessario e indefinibile rifiuto.

Camus diversi anni più tardi raccontò questa vicenda ne “Il primo uomo” (Le premier homme), un manoscritto incompiuto dai toni autobiografici pubblicato postumo nel 1994 da Gallimard. Fu forse la sua prima ed immatura esperienza dell’«assurdo» e  segnò, insieme alla tubercolosi che lo colpì giovanissimo, il suo percorso letterario e più ampiamente filosofico. Lo segnò a tal punto che nel maggio 1940, all’età di ventisette anni, portò a termine Lo Straniero (L’Étranger): la storia di Meursault, un uomo come tanti che in un pomeriggio sbagliato uccide un arabo su una spiaggia di Algeri e per questo viene condannato a morte.

L'assenza di speranza e di disperazione nel protagonista racconta un tipo d'uomo consapevole della propria condizione contraddittoria, del proprio incomprensibile e imprevedibile posto nel mondo. Questa consapevolezza, che gli impedisce ogni rimorso, ogni tentativo di difendersi di fronte ai giurati e in seguito anche il conforto di un prete, quindi di Dio, fa di lui il prototipo dell'uomo “assurdo”. Un caso limite, certo, ma che rappresenta perfettamente la stranezza della vita, la sua natura instabile, che può improvvisamente cambiare direzione, segno, significato. Al di là delle volontà programmatiche, a prescindere dalle immaginazioni. 

Così, nell’opera dello scrittore franco-algerino, l’esperienza biografica si annoda con quella letteraria. Camus padre che assiste all’esecuzione vede l’assurdo sul patibolo, lo sente, lo vive, lo diventa. Camus figlio vede il patibolo pur non essendo stato alla prigione “Barberousse” quella mattina. E quindi vede pure lui l’assurdo, che non ha certo bisogno di occhi per farsi riconoscere. C’è e basta.

Meursault è in questo senso molto più di un alter ego; la sua rassegnazione all’indifferenza dell’universo rispetto all’umanità è molto più di un artificio narrativo: è già tutto nella levataccia di Lucien e nel raptus di Pirette e pure negli incubi infantili del piccolo Albert. Meursault c’è sempre stato e solo dopo è diventato di carta; è piuttosto una specie di monito: l’assurdo non sta negli uomini né nel mondo bensì nell’incontro tra i due. Ed è questo il legame tra Albert e Lucien Camus, l’eredità misteriosa. Che poi non è altro che il filo rosso dell'umanità; una faccenda che dimentica la genetica, le generazioni e le genealogie, che riguarda tutti indistintamente. Una faccenda che nessuno può dire come andrà a finire. 

 

16-05-2014 | 17:12