Lo zero del nostro tempo
Z come Zero
Zeitgeist – La parola è entrata nel dizionario italiano anche se con ogni evidenza è di origine tedesca. Zeit significa tempo e geist spirito. Zeitgeist è lo spirito del tempo, o meglio, di un tempo determinato. Cioè il clima ideale e culturale che caratterizza un periodo storico. Come l’umanesimo rinascimentale, i lumi che portarono il diciottesimo secolo a culminare nella Rivoluzione Francese, l’effervescenza spensierata e fragile della Belle Epoque.
Che dire dello zeitgeist dei giorni nostri? Per strada si vedono adulti anche maturi, eccitati come bambini, che con il telefono cellulare cercano di catturare virtualmente dei mostriciattoli immaginari, mezzi giapponesi e mezzi marziani. E nessuno li prende per scemi. Si incontrano signore e signori, più o meno sfioriti, che hanno rinunciato ai lineamenti del proprio volto per indossare maschere permanenti dai tratti giovanili, ormai tutte uguali a forza di botox e rappezzi di chirurgia plastica. Sembrano appartenere a una nuova specie di umanoidi senza tempo, figli di una maldestra sperimentazione scientifica e non della natura. Ma nessuno li prende per mostri. E loro sono soddisfatti. Nei laboratori all’avanguardia, per migliorare i risultati, si lavora alacremente alla creazione di esseri umani in provetta, si fecondano nonne che portano gli ovuli delle figlie e si rivitalizzano i genitali di nonni che sperano di andare a letto con le amiche delle nipoti. Senza alcuna vergogna. Nessuno (o quasi) grida all’abominio. Al tempo stesso, si pratica un aborto ogni cinque minuti e mezzo. Gli adolescenti consumano navi di droga e a sedici anni sono già stanchi del sesso, quello che i loro genitori scoprivano, forse, a trenta. Ci sono eserciti di ragazzini in guerra al posto dei padri e zone intere del mondo in cui i più anziani non arrivano alla mezza età. E la cosa non ci turba più di tanto. È un’epoca divisa tra infantilismo e gerontofilia, tra desiderio di eternità e infanticidio, che non ama il passato e teme il futuro. Un’epoca in cui si cancella la memoria e si abolisce la speranza, come se fossero ostacoli inutili all’ assolutezza totalizzante del presente.
Dietro gli sportelli delle banche, negli uffici postali, nelle panetterie o dal barbiere, l’uomo della porta accanto è coperto da capo a piedi di tatuaggi, orecchini e anelli nasali, simile ad un selvaggio da film americano degli anni ‘30. Fanno eccezione solo quelli che indossano costumi realmente tribali come la djellaba, il niqab o il burqa. Nessuno si stupisce. In pochi hanno padronanza della propria lingua e quelli che parlano ancora il dialetto d’origine si contano sulle dita della mano. Sono considerati gente da meno, ignorante e volgare. Ma tutti biascicano trivialmente un po’ d’inglese. Così, il 31 di ottobre, Halloween si può finalmente festeggiare nel mondo intero, se ne sentiva la mancanza. Anche se, tra acconciature alla mohicana e parrucche rastafariane, sembra che Halloween si celebri tutti i giorni dell’anno. Poi, c’è chi ha la casa feng shui e fa i safari in Kenya, chi ha il dentista in Croazia, chi cerca moglie in Moldavia, chi va in banca alle Cayman e chi ha dovuto lasciare i figli in Somalia. È un’era nomade, nella quale gli sherpa nepalesi portano le Nike e le mogli degli industriali i ponchos peruviani, sospesa tra l’esotismo e l’esilio, caratterizzata da migrazioni di massa. Ciò che importa, quale ne sia l’urgenza, è muoversi. Milioni di deportati economici, affamati e in cerca di pane, incrociano le rotte di altrettanti turisti, satolli e voraci di svaghi. E, purtroppo, nessuno riesce fare in modo che gli uni e gli altri vivano una vera vita nel luogo da cui provengono.
Che significato ha tutto ciò? Qual è il senso dello zeitgeist che caratterizza la nostra epoca? Sradicamento dal proprio raziocinio, dal proprio corpo, dalla propria storia, dai propri costumi, dalla propria terra e dalla propria identità. Sradicamento declinato in cento modi. Delirio, travestimento, mutazione, fuga, evasione, esodo, transumanza. Questa sembra essere la direzione verso la quale tende un uomo nuovo, nato dagli orrori delle guerre mondiali. Venuto al mondo dopo che si fosse definitivamente annichilita la sacralità della persona e la si fosse ridotta a semplice cosa. Considerandola disponibile tra le altre, sostituibile come le altre, consumabile quanto le altre. Un uomo che, tra Auschwitz e Hiroshima, ha smarrito se stesso, l’idea della propria unicità – la personalità – e con essa, l’idea dell’unicità altrui. Quindi, privo di un centro, di un punto fisso, di una bussola per orientarsi. Sempre più informato e sempre meno saggio, allo sbando tra le promesse della tecnologia e le minacce della religione, l’incapacità di essere e la smania di apparire, la pornografia e la castità, il narcisismo e il suicidio, il rifiuto della mortalità e l’industrializzazione della morte, l’elogio della diversità e la condanna del dissenso, l’esaltazione della ricchezza e la moltiplicazione della miseria.
Un uomo che ha alienato la propria vita alla “società dello spettacolo” - come la chiamava Guy Debord - nella quale l’esistenza, svuotata dai suoi contenuti immateriali, ha ceduto il passo alla rappresentazione, con tutti i suoi orpelli. Vale a dire un universo in cui nulla è autentico, il simulacro fa ufficio di realtà, quindi tutto è costantemente altro da sé e trova il proprio senso sempre altrove. Inconsistenza e instabilità sono i caratteri che lo distinguono. Le persone sono personaggi, gli oggetti sono simboli, i simboli non valgono più degli oggetti e i discorsi si sono trasformati in slogan utili solo alla vendita di qualunque cosa. Così, la fiacchezza dei valori può essere spacciata per tolleranza e l’indifferente, cinica consumazione degli esseri e del mondo per godimento della vita. Tutto è diventato merce e, come la merce, è necessario che circoli, senza frontiere, morali o materiali.
Di conseguenza, la trasmissione di informazioni è diventata l’attività principale e si sono imposti strumenti di comunicazione che non conoscono limiti di sorta, spaziali, temporali e ancor meno etici o politici. Networks, come si dice ormai in qualunque lingua, che stanno trasformando l’homo sapiens in homo sedens. Un cataclisma al quale i paleontologi del futuro faranno probabilmente risalire l’estinzione di una specie e la comparsa di un animale con nuove caratteristiche. Per lo più seduto, lo sguardo fisso davanti a sé, paradossalmente sempre in viaggio, solitario e in costante chiacchiericcio con migliaia di altri individui isolati, ormai assuefatto all’idea che la realtà e la virtualità coincidano. Lo schermo è il suo panorama. Il touch screen, sul quale basta appoggiare un polpastrello per tramutare ciò che è immagine incorporea in presenza quasi fisica e (in qualche modo) entrare in contatto con essa. In qualche modo, visto che lo schermo non è solamente una finestra aperta, ma anche una cortina che separa dal mondo, e quel contatto non ha mai due poli, poiché si stabilisce, si modifica e si interrompe unilateralmente. Una realtà fittizia, fatta di ombre e di uomini in catene, che non può non richiamare alla memoria quella descritta da Platone nel mito della caverna.
Zero - Cosa rimane, in questi anni, di ciò che fin dall’epoca delle caverne ci ha distinto dalle altre specie animali, vale a dire l’arte? Anch’essa si è spersonalizzata, ha perso il suo contenuto di umanità, ha parlato troppo di se stessa e, a forza di contorsioni solipsistiche, si è sradicata dalla la propria ragion d’essere, riducendosi ad una mera categoria merceologica. Ed anche quando si sforza ancora di intervenire sul reale (visto che ogni meditazione metafisica è stata bandita da lungo tempo, con l’eccezione di alcuni artisti ostinatamente “fuori moda”), è tanto asservita al mercato ed al pensiero dominante da farlo con grande conformismo ed in modo estremamente superficiale. Molto vendibile e per nulla credibile. Forse, solamente ipocrita.
È molto probabile che il contenuto della parola arte abbia subito una mutazione irreversibile. Molto verosimile che l’uomo di Altamira sia definitivamente scomparso a Hiroshima e, con lui, quel tentativo di trovare il senso della vita grazie alla libertà dell’immaginazione materiale. Senza fare del catastrofismo millenarista, questo potrebbe significare che ci troviamo di fronte al grado zero di una scala dell’evoluzione, il punto in cui coincidono la fine di un’era ed i primi balbettamenti di un tempo nuovo.
Difficile, se non impossibile, pronosticare come sarà e quali ne saranno i frutti. Certo, le premesse lasciano intravedere alcune tendenze fondamentali. La scomparsa della manualità e la conseguente predominanza degli strumenti tecnologici. La serialità delle opere e la negazione del valore dell’unicità. L’assimilazione del concetto di opera a quello di prodotto. La priorità del sistema di diffusione rispetto al processo creativo. La ricerca pressoché univoca della riconoscibilità formale a discapito della pregnanza dei significati.
In buona sostanza, da oltre mezzo secolo stiamo assistendo a un’ industrializzazione dell’arte che ha progressivamente ridotto a zero quella che fu la sua specificità, rendendola prodotto di consumo in tutto simile alle migliaia di altre cose, per lo più inutili e costose, che affollano le menti e le case della gente. Prodotto culturale destinato a occupare il tempo libero delle masse, prodotto di lusso necessario a manifestare la propria potenza economica per alcuni happy few.
Sembra sia proprio giunto il tempo di dimenticare la frase di André Malraux, per il quale “L’arte è il percorso più breve fra uomo e uomo”. O, forse, il momento più opportuno per ricordarla.