Lo spazio e il tempo della solitudine

Notre-Dame-des-Fleurs è il primo romanzo del visionario e anticonformista Jean Genet (nella foto con alle spalle Allen Ginsberg) e fu scritto durante il suo soggiorno nella prigione di Fresnes nel 1942. Lo spazio carcerale (claustrofobico e isolato, ma anche intimo e protetto) condiziona l’esperienza e la percezione del tempo e si costituisce come tematica centrale e come costante motivo di riflessione da parte del narratore (che porta lo stesso nome dell’autore) e dei personaggi che con esso interagiscono.

Il narratore racconta la sua storia secondo continui time shift che dal tempo reale della sua prigionia conducono a un passato più o meno remoto (e con un movimento elastico riportano il passato all’interno del presente) e, contemporaneamente, inventa numerosi personaggi ricavandoli da figurine che tiene appese sulle pareti della cella. Tra questi spicca Divine, il travestito che nel passato era noto col nome di Lou Culafroy, e i suoi amanti Mignon, Notre Dame, Seck Gorgui ecc. Tutti i personaggi scaturiscono dall’immaginazione del narratore e con quest’ultimo si identificano, talvolta espressamente, talvolta solo mimandone gesti, pensieri, sensazioni e condividendone le esperienze, alimentando così una lunga serie di rifrazioni e interconnessioni autobiografiche che sembrano difficili da districare. È lo stesso Genet che descrive il romanzo come un frammento della sua vita interiore, dichiarando espressamente nelle pagine iniziali quali siano le sue intenzioni e le motivazioni che lo spingono a scrivere: 

Qual è il senso di fabbricare questa storia? Riprendere la mia vita e rimontarne il corso, e così riempire la mia cella della voluttà di essere quel nulla che non fui mai, e ritrovare, per gettarmi al loro interno come se fossero dei buchi neri, quegli istanti in cui mi smarrivo lungo i complicati compartimenti dei tranelli di un cielo sotterraneo. 

L’essenza del romanzo risiede dunque nella convinzione di uno spazio e di un tempo completamente personali e interiori, e soprattutto nella possibilità concreta di trascendere, ignorare e infine ri-creare le normali coordinate spazio temporali. Ciò avviene soprattutto grazie alla rêverie, l’attitudine umana essenzialmente poetica che, secondo il filosofo francese Gaston Bachelard, permette a colui che la possiede non di riprodurre ma di ricreare immagini e di trascendere concretamente la realtà esterna. Nella sua filosofia dell’immaginazione poetica (incentrata nei due testi La poetica dello spazio, 1957; e La poetica della rêverie, 1960), il filosofo esamina in primo luogo l’importanza dello spazio fisico per la creazione estetica e avvicina la mente a una sorta di dimora, affermando che, attraverso il ricordo di stanze o case, si impara a convivere con noi stessi e, ugualmente, ricordando i posti dell’infanzia, si ha la possibilità di percepire le stesse sensazioni del passato nel momento in cui il passato viene localizzato e spazializzato e quindi iscritto in un luogo fisico.

Egli si sofferma poi sul potere della rêverie, definita come “la situazione in cui l’io dimentico della propria storia contingente, lascia errare il proprio spirito e gode in tal modo di una libertà simile a quella del sogno”. La rêverie, dunque, rende i posti del passato dimore di un tempo che, lungi dall’essere scomparso, è vivo e presente nella coscienza. Il processo, al quale sia Genet sia i suoi personaggi si abbandonano, si collega direttamente ad altri due concetti esaminati da Bachelard: quello della solitudine (che egli definisce “centralizzata” e in seno alla quale scaturisce l’immaginazione poetica) e soprattutto quello dell’ “immensità intima”, uno stato di intensità interiore favorito dalla rêverie, la cui progressiva dilatazione consente alla coscienza meditante di sospendere le naturali coordinate di tempo e spazio e di raggiungere infine una particolare dimensione atemporale e aspaziale, che “assorbe in qualche modo, il mondo sensibile”.

Tale possibilità si traduce in quella che Bachelard definisce un’ “ambizione quasi folle di dare un impulso a un più-essere, un più che essere”. Una espansione simultanea dunque, dell’essere, del tempo e dello spazio, la quale, soprattutto attraverso il linguaggio (fonte per Bachelard di ogni rêverie), innalza anche i personaggi di Genet  verso una realtà diversa da quella contingente, inglobando nel vissuto anche il vissuto immaginato, nello spazio e nel tempo anche la fantasticheria, l’estasi e la forza estetica creatrice. In questo senso, anche Genet si nutre del sogno ad occhi aperti e, al suo interno, crea un nuovo linguaggio, articolato, barocco, a volte eccessivo ma sempre ricco e sfaccettato:

Nutrirsi del sogno… e utilizzare un altro linguaggio. E credere sul serio di essere imprigionati per l’eternità. Questo significa “costruirsi la propria vita”: rinunciare alle domeniche, alle feste, al tempo che genera.

Le pagine che narrano la realtà della prigionia si fondono così con la vita – ugualmente “reale” – che avviene nella testa del protagonista e dei suoi personaggi. Non sappiamo se Bachelard abbia letto Genet o meno, ma è certo che le pagine di quest’ultimo – come le pagine di ogni grande letterato – favoriscono una riflessione filosofica che con la vera filosofia può instaurare un dialogo fervido e fecondo.

17-02-2014 | 01:11