L'incredibile storia del ribelle di Berkeley

Al comando di una voce anonima tutta Sproul Plaza si ferma. Una massa compatta di studenti si siede in un unico gesto sincrono, imprigionando la volante della polizia privata che Clark Kerr, rettore dell’università di Berkeley, ha mandato a catturare Jack Weinberg. Comincia quella che a tutt’oggi è considerata la più grande protesta studentesca americana di sempre.

1964. Berkeley. La zona del campus tradizionalmente destinata alle riunioni degli studenti, dove si potevano allestire banchetti politici e indire petizioni viene chiusa. Di fatto, gli universitari perdono il diritto di dibattito politico. La situazione viene esacerbata ulteriormente dal clima difficile di quegli anni, che vede l’impegno di molti giovani in prima linea contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili dei neri (l’accesso del primo studente nero all’università data solo al 1962, e suscita un tale subbuglio da indurre Kennedy a inviare oltre 23 mila soldati a sedare i disordini), di conseguenza a maggior ragione le nuove limitazioni vengono vissute come un sopruso insopportabile.

La miccia è costituita da un episodio in definitiva di poco conto: uno dei coordinatori del movimento per i diritti civili, Weinberg, sfida il divieto del rettore e piazza un banchetto politico in Sproul Plaza, uno spazio molto vasto e frequentato, ai piedi di una gradinata che conduce agli uffici dell’amministrazione. La comparsa della volante, il ragazzo che viene trascinato dalla polizia e caricato in macchina sarebbero potuti rimanere fotogrammi senza significato, se solo non ci fosse stata quella voce. Mentre gli studenti aspettano di sapere quale sarà la reazione delle alte sfere di Berkeley, uno di loro si avvicina alla macchina e si sfila le scarpe, per non danneggiarla, quindi si issa sul tetto e rivolgendosi alla piazza gremita spiega le ragioni della protesta e chiede libertà di parola.

Ha i capelli crespi, gli occhi azzurri e un difetto di pronuncia, si chiama Mario Savio (nelle foto, sopra e sotto). I suoi genitori sono partiti dalla Sicilia per cercare lavoro come operai, lui invece è un genio della fisica. Già da liceale ha scoperto degli errori di calcolo nelle tabelle della marina militare statunitense sulla propagazione del suono in acque profonde e il suo lavoro è stato pubblicato. Al momento dei fatti che stiamo narrando, Savio è già andato in prigione, accusato di violazione di domicilio per avere protestato nella sede di una confederazione d’alberghi contro l’assunzione di personale nero solo per lo svolgimento delle mansioni più umili. Subito dopo essere stato rilasciato decide di partecipare alla Freedom Summer che si svolge in Mississippi perché sia permesso votare anche ai neri. Il suo viaggio non è privo di incognite, alcuni dei volontari partiti assieme a lui vengono assassinati dal Ku Klux Klan, lui stesso viene aggredito. Torna a Berkeley con la consapevolezza che qualcosa nel continuum naturale delle cose si è spezzato. In un’intervista spiega come le immagini dell’Olocausto, del disastro di Hiroshima, la contrapposizione a tinte fosche fra America e comunismo, avessero creato la sensazione precisa che la linea del male assoluto fosse stata valicata.

Senza avere mai cercato di diventare un leader, Savio diventa la figura cardine del Free Speech Movement. Va personalmente a parlamentare con Kerr. La macchina della polizia è bloccata da trentadue ore, ma sembra che sia raggiunto un accordo, quindi risale sul tetto della volante bloccata per invitare alla smobilitazione: “Vi chiedo di alzarvi con calma e dignità. Tornate a casa”.

Due mesi dopo la situazione è critica e il confronto con Kerr si è ulteriormente inasprito dopo una sua dichiarazione: “L’università è una fabbrica il cui compito è riempire delle teste vuote, plasmarle e farle lavorare per il sistema”. Gli studenti si riuniscono di nuovo, pacificamente, ai piedi delle gradinate di Sproul Hall. È il 2 dicembre 1964 e Mario Savio tiene il suo discorso più famoso, Bodies upon the Gears, “Corpi in mezzo agli ingranaggi”. Se l’università è una fabbrica, dice, noi allora siamo il materiale grezzo che loro vogliono manipolare, per renderci docili clienti del Governo, dell’Università, dell’industria, del sindacato.

“Ma noi siamo esseri umani! Arriva il momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, fa così male, che non puoi prendervi parte, non puoi esserne parte nemmeno passivamente. Bisogna mettere i nostri corpi in mezzo alle ruote, agli ingranaggi, alle leve e fare in modo che si fermino. E bisogna dire chiaramente a chi la gestisce, a chi ne è padrone, che a meno che non siamo liberi sarà impedito alla macchina di funzionare”, grida Savio dalla scalinata che ora porta il suo nome (video sotto).

Dal carcere di Birmingham pochi mesi prima Marthin Luther King aveva scritto, in risposta ad un documento stilato da otto ecclesiastici che invitavano a mantenere le proteste per i diritti civili nei tribunali e non per le strade, che chiedere di aspettare una giustizia che con ogni probabilità non sarebbe mai arrivata era chiedere il sacrificio della rassegnazione: “ Non avevamo perciò altra scelta che prepararci ad un’azione diretta per mezzo della quale avremmo usato il nostro stesso corpo per mettere il nostro caso davanti alla coscienza locale e nazionale”.

Dopo il discorso di Savio, gli studenti occupano l’edificio, con cifre stimate intorno alle 1500 persone. Momentaneamente l’università non reagisce. Ma arrivati a sera cominciano a fioccare gli arresti, che durano fino all’alba del giorno successivo, per un totale di 773 ragazzi portati nella vicina prigione di Santa Rosa. È il più grande arresto di massa mai avvenuto in California.

La gravità dell’accaduto costringe i vertici accademici a scendere a patti, proponendo un incontro nell’anfiteatro affinché gli studenti possano ascoltare la proposta di Kerr. Che in realtà parte piuttosto male, dato che auspica l’inizio di una nuova era “sotto la legge”, contrariamente, sottolinea, a quanto fatto invece dal Free Speech Movement. La mozione di Kerr lascia insoddisfatta la platea, tanto più che non fornisce agli studenti che sono stati arrestati alcuna garanzia di non incorrere in sanzioni disciplinari. Una volta di più, si sarebbe potuto trattare di un semplice malcontento se non fosse che Savio si è alzato e sta percorrendo i pochi metri che lo separano dal microfono. Due poliziotti si avventano contro di lui e lo atterrano, impedendogli di prendere la parola. La folla esplode, inferocita: “Let him speak! Lasciatelo parlare!”.

Alla fine di una battaglia durata diversi mesi Berkeley riebbe la libertà di parola, ma Mario Savio dovette pagare un prezzo molto alto. Difatti, rimase intrappolato negli ingranaggi dell’FBI, che lo seguì per tutta la vita svolgendo una pesante operazione di dossieraggio. Pur sapendo che non c’erano prove del coinvolgimento del partito comunista, venne ventilata la pista che Savio fosse l’ultimo anello di una catena politica che mirava a diffondere il caos nelle università d’America per rovesciare il Governo degli Stati Uniti. Sulla base di queste accuse infondate l’FBI di San Francisco propose di inserire il suo nome in una lista – non ufficiale e non autorizzata – di persone che potevano essere arrestate senza alcuna garanzia processuale in caso di emergenza nazionale. Si laureò in fisica solo nel 1984, dopo aver fatto il barista e il commesso, per poi insegnare all’università Natura del tempo, Letteratura e Fisica. I carteggi che documentano l’accanimento contro Savio sono stati esaminati solo recentemente, dopo che lo studioso Seth Rosenfeld è riuscito a farseli consegnare invocando il Freedom of Information Act.

Per chi in quell’ottobre 1964 a Berkeley non c’era fu un brillante fisico morto prematuramente. Per tutti gli altri, “il messia che agita le mani, esortando i suoi seguaci dal tetto di una macchina della polizia”.

 

31-07-2014 | 12:20