L'importanza di chiamarsi Ernesto
Palermitano trapiantano a Londra, Ernesto Tomasini vanta una carriera internazionale che si muove attraverso canali e generi diversi, abbracciando, oltre alla musica, le arti visive, la letteratura e il cinema, e riuscendo a creare un virtuoso e vorticoso mélange di armonie e inusuali contrasti.
Numerose le sue collaborazioni con figure leggendarie (Lindsay Kemp, Marc Almond e Peter Christopherson, tra gli altri) e le memorabili performance in teatri e musei tra i più importanti al mondo. Ha inoltre insegnato in prestigiose accademie di arte drammatica (l'unico italiano ad aver tenuto una Master Class alla Royal Academy of Dramatic Art) e, nel 2012, è stato inserito nel volume Eccellenza Italiana (con presentazione del Presidente della Repubblica) figurando tra gli italiani che “nei vari settori artistici, istituzionali e sociali hanno reso grande il Bel Paese”.
Grazie a una personalità artistica proteiforme e uno stile tutto individuale, Ernesto ha frequentato anche la scena più underground e sperimentale, mescolando sempre classicismo e avanguardia. “Una star della scena alternativa” (così titolò Repubblica), è stato definito “iconoclasta e innovativo”, “eclettico”, “poliedrico”. In lui, infatti, la contaminazione di generi e stili va intesa in senso letterale, e recupera il significato etimologico del termine: da “con” (“insieme”) e “tan”, che significa “toccare”, “mettere in contatto”, “contagiare”, e poi in senso figurato, anche “propagare”. Il suo impasto espressivo, infatti, “tocca” e mette in contatto varie arti e tradizioni, entra in dialogo con il passato e lo contagia con il più presente dei presenti, creando un messaggio attraverso cui, come onde elettriche, le più sfaccettate emozioni si propagano. Parlando con lui, inoltre, riusciamo a scoprire ancora altri tasselli, inaspettati e imprevedibili, del puzzle Tomasini. Un puzzle che pare davvero essere in continua costruzione.
Spesso per il tuo stile, i riferimenti culturali e il tuo uso della voce, ti si associa al Romanticismo o al Barocco. Vedendo la lista impressionante delle tue esperienze artistiche, mi viene però da pensare a un uomo del Rinascimento trasportato magicamente nel ventunesimo secolo…
Certe scelte sono dettate da necessità, altre nascono dalla voglia di apprendere, altre ancora sono una sfida. Non c’è mai stata l’intenzione di voler collezionare generi diversi. Fin dai miei esordi in Italia ho alternato cabaret a teatro e poi, in Inghilterra, avere a disposizione tutte quelle discipline mi ha fatto sentire come un bambino in un negozio di giocattoli. Ho giocato con i classici, l’alternative comedy, il canto, il cinema, le maschere, le marionette, e via dicendo. Quando ho iniziato a mettere in piedi i miei spettacoli è stato inevitabile utilizzare quello che avevo imparato. Il risultato è stato un teatro di contaminazioni. Forse è sempre stata un’esigenza ma certamente inconscia.
In effetti, la “contaminazione” sembra essere la cifra descrittiva migliore per l’arte firmata Tomasini. Troviamo sempre una costante oscillazione tra avanguardia e classicismo, scena alternativa e canali mainstream. D’altronde, tra le tue fonti di ispirazione si passa da Walt Disney a Urs Luthi…
Per me non c’è nessunissima differenza fra il mainstream e l’alternative. Faccio quello che mi piace. Poi se è mainstream o è alternativo lo dirà qualcun altro, ma io continuerò a fregarmene. Peter Brook diceva che spesso il teatro commerciale ha un’energia e una vitalità che il teatro d’avanguardia non ha. Walt Disney è il più grande artista del ventesimo secolo, lo rappresenta e lo riassume così come Giotto e Leonardo sono emblematici delle loro epoche. Né Picasso, né Stravinsky arrivano a tanto. È Disney un classico perché è universale, o è un avanguardista perché ha inventato modi nuovi di fare arte? È un conservatore per via dei valori che esalta? O un sovversivo per aver inserito nella sua opera elementi inquietanti?
Quanto invece alla letteratura: che ruolo ha avuto nella tua formazione? Quali gli autori che hanno segnato una vera fonte di ispirazione per te?
Da bambino amavo gli autori per l’infanzia inglesi. Crompton, Burnett, Lofting, Grahame, Travers. Sono laureato in lingua e letteratura inglese e spagnola quindi i miei studi avevano al loro centro i classici di quei due paesi. Fra i preferiti: Spenser, Pope, Swift, de la Vega, Cervantes. However, non trovo che, almeno fino ad adesso, il mio sia un modo “letterario” di fare teatro. Stranamente il mio è più un teatro “saggistico” (“the right side of an illustrated lecture” disse un critico inglese) o picaresco (aver letto “El Lazarillo de Tormes” all’università deve avermi fulminato). Ma la mia vera grande passione è sempre stata il teatro. Non solo farlo e vederlo ma anche leggerlo. Alfieri, Feydeau, Ibsen, Kroetz, Kaufman, tutti! Sicuramente ho appreso lezioni di “pulizia strutturale” da Noel Coward ma anche un gusto più caotico da Copì. But when all is said and done, sono ben lungi dall’essere un intellettuale e, troppo spesso, il mio cuore risiede nelle “pratiche basse”: la mia influenza più grande rimane una drammaturgia relativamente recente ma non tramandataci in forma scritta perché considerata – appunto - “bassa”: quella del varietà.
Se per intellettuali intendiamo letteralmente chi usa la facoltà di crearsi delle idee, allora il varietà – ne sono convinto – ne è pieno. Mi fai pensare a Giordano Bruno (e torniamo al Rinascimento…) e al suo concetto di “varietas” (“nello stesso teatro si dirige e si recita la stessa commedia e la stessa tragedia”): la necessità di mescolare stili attingendo anche alle forme più “basse” della letteratura comica, erotica o burlesca come quelle di Aretino, Berni e Folengo, per creare poi quell’idioma ricchissimo fatto di metafore oscene ed esagerate, sintassi vertiginosa, caricature. Joyce seguirà esattamente il suo esempio attingendo alle forme popolari dell’harlequinade, il music hall e la pantomima, e celebrando dunque l’aspetto più carnevalesco dell’arte. Ti riconosci in questa espressività volta a racchiudere la “varietas” della “umana esistenza”?
Direi che è un’interpretazione accurata ma, anche qui, non c’è una volontà razionale da parte mia. Credo sia un’imposizione genetica: sono pronipote del piu’ grande comico siciliano del diciannovesimo secolo e so che il mio bisnonno tira i miei fili da quel Gran Teatro di Varieta’ su nel ciel. Tutti i miei spettacoli sono dei “varietà cattivi”: dai miei primi cabaret degli anni ‘80 fino a “Beato chi ci crede”, andato in scena a Milano, l’anno scorso. Il varietà (in tutte le sue forme: Vaudeville, Music Hall, Kabarett, Revista, Café-chantant, Avanspettacolo, ecc.) frantuma la formalità del teatro, sventra la quarta parete, priva lo spettatore del suo ruolo di voyeur e lo chiama direttamente in causa. È fatto di “grandi stelle” in scena che sono puttane nella vita e, come la vita, contiene tutto: dal pericolo dell’equilibrista alle pene d’amore della cantante e dai sotterfugi del mago, alla seduzione del female impersonator. Nei miei one man show tutto questo è interpretato da un attore che non vuole solo intrattenere.
Tornando invece ai libri più nello specifico: qual è il libro che hai letto da bambino o adolescente che ti è rimasto davvero in mente? E perché?
“The Picture of Dorian Gray” che lessi in quella parte della vita in cui non si è più bambini ma non si è ancora adulti. A tredici anni, l’elemento “magico” nel libro appagava i miei desideri irrazionali infantili e la sensualità che lo pervade titillava i pensieri torbidi da adulto che si insinuavano in me. Ispirò e informò le mie velleità anti-conformiste, io che mi ero sempre tenuto lontano dal buonsenso e che, di lì a poco, avrei fatto di tutto per fuggire dai canoni della morale borghese.
E il primo film che ti ha veramente segnato?
Tutti i lungometraggi Disney dai quali partii per inventare una nuova, più esaltante vita parallela. Ero un disegnatore precoce ed avevo completalmente cancellato il mondo fisico attorno a me per ridisegnarlo come lo volevo io. Saltavo dentro quei disegni e vivevo in quella realtà. Tornavo nella quotidianità solo quando dovevo rispondere a una domanda della maestra, o interagire con mamma, o che so io. Il resto del tempo era trascorso in una “Ernesto Tomasini Production” e le cose non sono cambiate.
Dunque anche oggi quando ti vediamo sul palco dobbiamo immaginarci che, come Mary Poppins, in un’immagine che mi sta davvero a cuore, tu ti sia tuffato in un disegno di “Ernesto”?
Quello che porto in scena è soltanto una riduzione di quello che vivo quotidianamente. Io – in maniera meno “autistica” rispetto all’infanzia - il salto nel disegno continuo a farlo nella vita di ogni giorno. È l’unico modo di vivere che conosco. Ogni giorno divento una zia premurosa, un marito depravato, una ragazza spregiudicata, un clown demenziale… un’infinità di esistenze parallele che diventano realtà. Non potrei mai essere soltanto me stesso... Me stesso è quella moltitudine.
Dunque più che come “the one and only” ti dovrebbero presentare come “the one and very many Ernesto Tomasini”! Ho letto recentemente che hai anche iniziato a scrivere un libro epistolare sulle tue attività. Che tipo di esperienza è per te la scrittura, essendo questa un’arte “della solitudine” rispetto alle performance? C’è un range di emozioni diverse nel tuo approccio?
È un’esperienza per me impegnativa perché mi fa chiudere dentro e io, che sono una persona tutta fuori, sto facendo un viaggio introspettivo. Quando scrivi per il teatro i personaggi ti affollano la mente. Spesso ti esibisci nelle scene, ancora under construction, per sentire come suonano e poi ci sono i workshop... Non è un evento altrettanto solitario. Questo è il primo libro che scrivo e la solitudine di cui parli costituisce un ostacolo con il quale mi trovo spesso a fare i conti.
Il puzzle Tomasini si arricchisce sempre di più, dunque. Spero che nel libro parlerai anche di Lindsay Kemp, un altro compagno di lavoro non da poco. Come è nata la vostra collaborazione?
Nella maniera meno romantica possibile. Mi ha fatto dei provini e mi ha scelto per interpretare la co-protagonista femminile della sua prima produzione inglese dopo 20 anni all’estero. O meglio... l’evento in sé (l’audizione) è intrinsecamente poco romantico ma, essendo questa un’operazione di Kemp, è stata un’esperienza magica. Lindsay è uno dei pochi artisti la cui arte si riversa nella propria vita senza che ci sia differenza fra le due.
Condividi i suoi riferimenti letterario-culturali? Penso soprattutto a Genet ma anche a Shakespeare, o alla “nostra” commedia dell’arte.
Provo un’antipatia talmente spropositata per l’uomo Genet che non sono mai riuscito a farmi sedurre da certi aspetti della sua opera. Non gli ho mai perdonato di aver rubato il tacquino (con i preziosi appunti!) di Bataille. Non lo beccarono ma sono sicuro sia stato lui, era tipico di lui [ride, n.d.r.]. Mi piace molto filtrato da Lindsay che prese il suo linguaggio denso e lussureggiante e lo trasformò in espressioni silenziose e, comunque, io sono più un tipo da Cocteau. Vorrei provare antipatia anche per Shakespeare perché è talmente ovunque, con troppe produzioni spesso noiosissime, che sarebbe meglio passare ad altro. Poi però quando lo leggo vengo puntualmente inghiottito nel tornado della sua genialità. L’elemento commedia dell’arte nel lavoro di Kemp è spesso tralasciato e mi fa piacere che lo menzioni perché sono stato l’unico che, in un documentario sull’opera di Lindsay, ne abbia parlato profusamente. Per me è straordinario vedere come elementi di commedia dell’arte siano vivissimi ancora adesso nel teatro popolare palermitano che poi, in parte, è quello da cui provengo.
Hai recitato/cantato in 14 nazioni e in quattro lingue. Cosa provi nel cantare in lingue diverse dalla tua? Anche se ormai sei ovviamente bilingue, c’è una differenza di tipo emotivo, cognitivo o empatico?
No, per me non c’è differenza perché, in qualunque lingua, è la mia voce, la mia anima che viene emessa e che colora il mio corpo di una nazionalità o un’altra o forse nessuna. E Zeus solo sa in quante lingue ho cantato! Forse dopo Eartha Kitt e Nana Mouskouri, sono quello che ha cantato nel maggior numero di lingue. Ho cantato persino in enochiano e, nell’ultimo album, in swahili e in genoviano! Quando canto, il linguaggio è appiattito dalla musica e la lingua non ha più importanza, succede senza che ci provi più di tanto.
A proposito di una lingua che “trascenda il linguaggio”, in un’intervista precedente hai citato il “gramelot” di Dario Fo, il famoso groviglio di immagini fonosimboliche prive di significato. Un linguaggio incredibilmente espressivo proprio perché primordiale, un linguaggio “musicale” in cui è proprio il carattere iperbolico del suono, insieme a gesti e mimica, a conferire il significato. Che influenza ha avuto questa tecnica su di te?
Fondamentale. È stato il trampolino di lancio per un lavoro che ho messo in atto con la band Almagest! ma anche altrove. Un tentativo di disumanizzare la musica. Una musica posthuman. L’antidoto alla “musica di impegno”, quella dei cantautori per intenderci. Quest’ultima è poesia con le piume e quando indosso il cappello dello sperimentatore non amo la poesia. La poesia si trascina dietro le idee di un’epoca, di un uomo o di una donna, le sue opinioni, incastrate in un minuetto ritmico. Ne ammiro il virtuosismo formale ma il limite è costituito proprio dalle idee. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Io lo farei saltare in aria quel postaccio pieno di zanzare. Gli eventi precipitano quando questi atti di egocentrismo vengono musicati e i poeti/musicisti ci impongono il loro canto! Ecco che arrivano i contenuti a mascherare l’incapacità canora. Motivetti da juke box che diventano “poesia” per via di testi che vengono premiati dall’establishment criticato.
E dunque come ti poni rispetto ai testi “verbali” che canti, e che si cantano?
Ribadisco che questo riguarda solo una parte della mia ricerca. Da quest’ottica, il suono, il semplice suono che emette una vera, grande star del canto è ciò che conta. Quel suono è intelligente… quel suono è intelligenza… Senza sapere di esserlo, senza voler esserlo. Le parole della canzone sono solo un veicolo per portare avanti il “suono”. Vocali aperte e fricative puntigliose per una musicalità che ti penetra, ti fotte, senza significato specifico e quindi piena dei significati tutti. Un suono che sorprende l’ascoltatore. Un suono sovrumano. “Un Dio, un Farinelli”, diceva il popolo del 700. Quando Celine Dion (scelgo il nome più adatto a far inorridire gli “alternativi”!) emette un potente mi naturale la terra trema, il mondo esplode, l’universo non sarà mai più lo stesso! Il grande cantante non ha bisogno di testi. I suoi testi devono essere una scusa per articolare vocali che gli permettano iperbole. I neofiti si lamentano di non capire quello che cantano i cantanti d’opera… Come se capire “Sempre in darno qui rivolto fu di Satana l’ardir” [canta da “La Forza del Destino”, n.d.r.] cambi qualcosa. I cantanti d’opera che io preferisco sono quelli che non si capiscono.
Ad esempio?
Joan Sutherland: un’incomprensibile accozzaglia di dittonghi e affricate sdoganate a velocità inafferrabile, la cui pregna mancanza di significato ti colpisce alle spalle rivelandoti the meaning of life. Fioritura, melisma, coloratura, salti di quarta, glissando, tutto quel di cui la buonanima di Leonard Cohen non era capace nei suoi sproloqui monocromatici.
Spesso la musica, pur portando significati, li sopraffà e, quindi, li oblitera con la propria veemenza: Verdi, gli Abba, Sunn O))) tanto per nominarne tre che mi vengono in mente adesso. Poi ci sono i suoni individuali che, pur non essendo potenti o virtuosistici, sorprendono per la loro unicità ma, anche questi, sbocciano quando il testo è secondario o trascurabile. Mi vengono in mente l’ultimo Tiny Tim, i Cardigans, Amanda Lear.
Poi ci sono coloro i quali hanno dei contenuti ma, per fortuna, questi si perdono perche’ incomprensibili, o perché annientati dalla peculiarità dell’interprete: Tom Waits, Janis Joplin, Tom Araya. Kate Bush è un esempio principe. Quella voce idiosincratica e quella dizione bizarra hanno sempre annientato i significati. Che cazzo dice questa quando canta?
E non parlo dei cantanti di lingue che non conosco perché va da sé.
In certo qual modo (ma molto relativamente) mi riallaccio al discorso sulla phonè che Carmelo Bene fa in ambito teatrale. Per lui il linguaggio del Grande Teatro è comprensibile da tutti (anche da chi non parla la lingua messa in scena) in quanto significante sganciato dal significato. È un rumore! Per lui però la phonè è un mezzo e non il fine. La sua ricerca mirava al vuoto, alla fine dell’arte e della storia. Ecco perché dico di riallacciarmi a lui ma relativamente.
Una musica dunque che rifugge da qualsiasi contenuto?
Naturalmente scappare dai contenuti è impossibile. Anche la rivendicazione della mancanza di contenuti è un contenuto quindi non c’è via d’uscita. L’unica soluzione sarebbe una Nina Simone che si rifiuti di cantare, ma purtroppo lo faceva. Quindi non c’è soluzione. Siamo condannati alle parole, parole, parole come in una prolissa presentazione sanremese: di Facchinetti, Fogli, Bigazzi, Limiti, Conte, Mattone: “Parole Soltanto Parole”! Altrimenti ci sono le sperimentazioni prettamente vocali ma quello è un altro discorso.
Questa è una chiave per aprire una piccola porta e accedere a parte del mio lavoro con Almagest!. Quando mi tolgo il cilindro dello sperimentatore sono molto più tollerante, non temere.
Più che intolleranza, questa mi pare una visione precisa, fondata su lunghe riflessioni ed esperienze. Come metti dunque in atto tutto ciò nel recente progetto Almagest! ?
Ogni disco di Almagest! è un tentativo in quella direzione. Al centro c’è una poliedricità, linguistica e canora, che non è un semplice show off ma è proprio la ricerca dell’iperbole sonora appena discussa. Il cantante che da uno diventa centomila e quindi nessuno. Ogni brano - in maniera diversa - mira a far esplodere l’idea di canzone. Comunque, ripeto, questa è solo una piccola parte del mio lavoro. Ogni progetto è diverso e mi porta in direzioni diverse. Amo molto anche la musica in cui la parola è importante e trasmettere il significato delle lyrics è vitale. La verità è che cerco il teatro anche nel modo di fare musica e credo che persino questo sia un ennesimo salto in un disegno!