L'epica bellezza di Patty
Narra l’aneddoto che Nicoletta Strambelli, nata tra campi e calli, in una famiglia di semplici e marinare origini, frequentasse in giovane età il colossale poeta Ezra Pound. Nessuno stupore, giacché il “miglior fabbro”, come fu definito da T. S. Eliot, era a quell’epoca in convalescenza esistenziale proprio a Venezia; al lumicino degli anni, certo intellettualmente indomo, ma indubbiamente provato dal trattamento speciale riservatogli dal governo statunitense per l’accusa di tradimento. Pound divenne negli anni ‘60 icona per i barbuti anticonformismi della beat generation, con paradossale capovolgimento di riferimenti, per uno al quale era stata apposta spicciamente l’onta del fascista. Ora - nell’attesa vana che la giustizia americana porga postume scuse - proviamo a immaginare l’effetto che fa sedere a tavolino con tale personalità, per una ragazzina curiosa, poco più che adolescente, indubbiamente bionda e con occhi azzurri: reverenza? timore? soggezione? autografo? il bagno per il trucco (in fondo a destra)? Tutt’altro: spavalderia e istinto, nel mettere a frutto quel poco o incommensurabilmente molto appreso. Quella cosa rubata con la voracità intuitiva della gioventù, che conferisce altresì senso alla senilità. Reciprocità. Figuriamoci: dal contorto biascicare del vecchio cantore, che altro se ne poteva trarre, se non una suggestione carismatica? Un viatico, una scusa per osare, il coraggio d’improvvisare sull’incudine dell’immaginazione. Sguardo veloce a quelle rughe profonde, e via, chi la ferma più? Per Nicoletta fu dapprima albionico espatrio ribelle, per assaporare in diretta la Swinging London, poi ripiego strategico a Roma, giusto per vedere come stava la minigonna alle parioline in ritardo sui tempi.
C’è questa parola d’uso comune, ma dall’etimologia che ha dell’incredibile: Desiderio, ovvero abbandono della fiducia nelle stelle, forse per l’ottenimento dei medesimi buoni auspici quaggiù, nel tangibile. L’oggetto del desiderio sembra perciò voler significare una pratica d’oscuramento siderale, un sacrificio di luce, più che la distanza irraggiungibile alla quale porgere omaggi. Ebbene, nacque sotto l’ambigua egida di questi “astri assenti” il mito luciferino della ragazza del Piper. Edonismo, disinibizione, spensieratezza, libertinaggio, reame di Dioniso, ma anche sciabordio di vite illuse, nel girone infernale della perdizione, nei disinganni amari del mondo dello spettacolo. Pare proprio che da questa consapevolezza d’empietà venne fuori il nome d’arte – Patty Pravo – ovvero dal dantesco "guai a voi anime prave"; è la frase che Caronte pronuncia nell’Inferno, all’approssimarsi dei dannati. L’equivalente di portarsi appresso un fardello di corruzione, sul palcoscenico della canzonetta, ancora prima che questa si manifesti in tutto il suo mondano disfacimento, a favore di applausi. Un oggetto del desiderio molto sfuggevole, indubbiamente pericoloso; fu così che Nicoletta divenne Patty Pravo, maneggiando abilmente il veleno in piccole dosi, per trovare la medicina giusta, l’alchemico nettare d’immortalità, l’equilibrio nello squilibrio. Infatti mutò pelle in breve tempo, per poi farlo artatamente di continuo, sempre la stessa sempre diversa. Dapprima una chimera pop, una ragazza ribelle ed anticonformista, finta femminista (in realtà individualista), poi una dea greca, una geisha, sirena incantatrice e medusa pericolosa, una maschera del Nō, un efebo lunare, Amleto tinta platino, l’eterna bambina delle fiabe, il Rebis ed un rebus. Nell’ammirarla sorgono dubbi, Patty Pravo forse nemmeno esiste, senza per questo dover ricorrere ad un esilio svizzero o all’anonimato blindato, come Mina e Battisti; è Amanda Lear prima di Amanda Lear, Madonna prima di Madonna, Lady Gaga pima di Lady Gaga, è la bambola di porcellana e la femme fatale, al contempo eterea e sensuale, fragile e aggressiva, frivola e spirituale, l’enigma della Sfinge e la ragazza della porta accanto. Che non vedrai mai.
Potremmo risolvere così: “Vita avventurosa, da Jimi Hendrix a Paolo Conte, passando per i Rolling Stones, lunghe traversate nei deserti per compensare coi vuoti il carico di celebrità, buddismi barocchi e serenissimi, capricci e trasformismi, libertina sposata quattro volte, ma senza figli”, ottenendo un inconcludente bignamino. Soprattutto Patty Pravo è la gestualità naturalmente divistica, il senso profuso dell’aspettativa, dell’attesa, l’indolenza di movimenti estetizzanti, la erre moscia quando è il caso. Quando vuole sembrare più francese di Brigitte Bardot, oppure per simulare un’imperfezione dappoco, come il neo sopra le labbra, poi sparito per esigenze d’eternità. Puro teatro, molti successi e sempre quell’espressione astratta, quel vezzo snob di voler cambiare argomento e far spallucce. Lei, prima o poi, dovrà pur scendere da quella scala infiorata, con un abito inimmaginabile. Lo farà o saranno scazzi e incomprensioni dietro le quinte? Ritarderà di certo. Riderà nell’aver architettato l’ennesimo trabocchetto ad uso stampa? Patty Pravo è l’attesa leopardiana, il posticipo del desiderio nell’incognita, un “non si sa”, angelo di luce memore degli inferi. “Si ritira dal set o dal palco per motivi mai ben chiariti”, frase che ricorre spesso negli atti biografici della cantante veneziana, proprio ad indicare quel soave sbattersene delle regole. Si badi bene, mai a discapito della qualità dell’esibizione, sovente a gran danno degli intermediari untuosi che vivacchiano tra arte e pubblico. Degli intermediari. Poi, dall’alto di tutte le libertà sperimentate sulla propria pelle diafana, quasi inconsistente, se ne uscirà così: “Con questa storia della libertà, noi non ci rendiamo conto che viviamo in una splendida rappresentazione della schiavitù” (Bla – Bla - Bla). Chapeau.