L'emozione per Carmelo Bene

Prendendo spunto dai Mondiali di calcio appena conclusi, questa rubrica su Carmelo Bene si inaugura con un articolo dedicato a un libro nel quale Bene parla proprio di calcio, e lo fa in un modo che molto probabilmente potrebbe risultarvi strano e sorprendente.

Il libro in questione si intitola Discorso su due piedi (il calcio), pubblicato nel 1998 da Bompiani, e i suoi autori sono Bene ed enrico ghezzi (rigorosamente con la 'e' e la 'g' minuscole), quello di Blob e Fuori Orario. Tale libro è la trascrizione e l'adattamento di una conversazione avvenuta tra Bene e ghezzi nel marzo del '98: da due personaggi del genere ci si potrebbe aspettare una dotta e complessa dissertazione di stampo estetico-linguistico-filosofico su un qualche fenomeno artistico, e invece no, in quella conversazione parlarono proprio di calcio e anche di altri sport come basket, tennis e addirittura pallamano! Ne parlarono a modo loro, tirando in ballo le idee e le categorie estetico-culturali che solitamente usavano per produrre la propria arte (nel caso di Bene) e per concepire e proporre al pubblico visioni "altre" di cinema e di tv (nel caso di ghezzi).

Il dialogo tra i due inizia con delle considerazioni sulla durata delle partite di calcio che, come fa notare ghezzi, hanno <più o meno la durata standard hollywoodiana, europea, mondiale, fino agli anni Ottanta, di un film>, dopodiché viene affrontato il tema della visione delle partite di calcio, del vederle dal vivo o in tv (<Vi è che poi, essendo il novantanove per cento delle partite giocate mediocri, salvo qualche sprazzo, se ne avvantaggiano proprio in televisione. Perché non vedi quello che si gratta il culo, quello che insulta un altro, quell'altro che dà un cazzotto...>, asserisce Bene). Ma le parti più interessanti e "carmelobeniane" del libro sono quelle in cui Bene dice la sua sul concetto di campione (calcistico e non solo): per lui il campione - anzi, il supercampione - è lo sportivo che riesce a eccedere, a trascendere i limiti stessi dello sport che pratica giungendo a una sorta di status extratemporale e perfino extraqualitativo (<Addirittura eccedere la qualità. La qualità, cioè la forma, è noiosissima>) nel quale riesce a essere capace di ciò che conta di più, l'immediato, vale a dire ciò che avviene senza essere mediato da nulla, un atto puro che non ha bisogno dell'azione per avvenire e sbalordirci.

Secondo Bene nel mondo del calcio il più grande di tutti, colui che è capace dell'immediato, è Romario de Souza Faria più semplicemente noto come Romario, il centravanti brasiliano che negli anni Ottanta e Novanta deliziò le tifoserie del PSV Eindhoven e del Barcellona e vinse con la nazionale del suo paese i Mondiali del '94 e un paio di Coppe America, quel Romario capace di stare con le braccia <conserte o penzoloni oppure sui fianchi, per l'intiera partita!> come se fosse avulso da ciò che gli succedeva intorno, ma al tempo stesso capace di improvvisi, illuminanti e brucianti colpi di genio calcistico che gli permisero di segnare carrettate di gol (<Nemmeno gli avversari la vedono la palla, con Romario. Dove passi la palla, i centrali, i difensori, non lo vedono [...] Questo è l'immediato di Romario; quando sull'1-2 segna, bruciante al limite dell'area, lì siamo all'immediato... [...] l'immediato io - da che vedo il calcio, da più di quarant'anni - l'ho visto solo in Romario>).

Ma non c'era solo Romario nel cuore sportivo di Bene, l'asso brasiliano era in buona compagnia: da Marco Van Basten (<per me, è uno dei due, dei tre più grandi di ogni tempo [...] Van Basten era uno che più che giocare era giocato, anche lui>) al nostro Alessandro Nesta (<C'è un centrale che penso sia il più grande al mondo: Nesta>), passando per "divinità extracalcistiche" come Michael Jordan (<Uno come Michael Jordan, dove lo trovi? Anche con lui non si capisce mai nulla! Siamo in un immediato...>), Carl Lewis, Stefan Edberg, Sugar Ray Leonard (<Edberg, per me, è il tennis, come Sugar Leonard è la boxe...>) e perfino il decatleta inglese Daley Thompson, del quale Bene dice <era il mio idolo>.

Dalla lettura di questo libro emerge la figura di un Carmelo Bene grandissimo appassionato di sport in generale, non solo di calcio, che applicava al mondo dello sport lo stesso atteggiamento anticonvenzionale e dissacratorio che applicava alla sua arte e alla sua vita: Bene, contrariamente alla quasi totalità dei maschi italiani appassionati di calcio, non tifava per una squadra in particolare (<io non riesco a tifare per una squadra> afferma ghezzi, <Ma nemmeno io> gli risponde Bene), si "innamorava" dei campioni piuttosto che della maglia che indossavano, a eccezione della nazionale brasiliana (<in cielo c'è il Brasile soltanto [...] Bisogna onorare il Brasile, l'unico che mi porti fuori...>) e non di quella azzurra... Indovinate un po' per chi tifò Bene durante i mitici Mondiali dell'82?

Nel libro trovano posto anche riflessioni sul cinema, sul teatro e sulla letteratura, oltre ad alcune affermazioni tranchant alle quali Bene affida il suo pensiero sul rapporto tra arti performative da una parte e sport dall'altra, un pensiero a dir poco stupefacente se si pensa che Bene è stato una delle personalità più importanti e fondamentali del teatro italiano del Novecento: <Io non lo perdo mai, però (l'NBA, il campionato americano di basket - ndr). Non seguo certo il teatro, me ne fotto del cinema... Quando c'è l'N.B.A. però non lo si può perdere [...] Quello che lamento è questo, insomma. L'emozione, io me la devo andare a cercare nel Brasile, oppure nel rugby neozelandese, oppure in Jordan, non so, nell'N.B.A., nel basket o negli Edberg del tennis, ma non posso andare a cercarmela in una sala teatrale. Scherziamo?>. 

 

 

18-07-2014 | 01:54