L'anno vecchio è finito ormai
Un altro anno se n’è andato. Col suo bagaglio di avvenimenti, ricorrenze, tragedie, eventi fasti e falsi eventi, appuntamenti di routine ed occasioni uniche. Senza la pretesa di scriverne la storia, ed ancora meno di capirne il senso, si può provare a ricordare disordinatamente qualche fatto, giusto per distogliere la mente dalle sinistre occupazioni del periodo natalizio.
La primavera è trascorsa al suono delle trombe che intonavano l’inno trionfale dell’Esposizione Universale di Milano, trivialmente Expo 2015, grande opportunità di rilancio del paese, formidabile vetrina dell’eccellenza italica ed occasione unica per trovare una soluzione al problema della fame nel mondo. Qualche mese più tardi restano solo un luna park in disarmo (l'Albero della Vita sembra la Tour Eiffel dopo un disastro nucleare), il ricordo di sette ore di coda per assaggiare delle cavallette che in qualunque campo si possono degustare all’istante, la Carta di Milano servita essenzialmente ad incartare i panini di Farinetti (un cognome predestinato alla vendita della piadina) e le foto di una mostra gastroestetica, nella quale gli Eatalyoti (quelli che si mangiano il paese) assaporavano tranches di Liga bue, fettine ai Melotti e Andrea con le Castagne. Un vero tesoro d’Italia che ha permesso al mondo intero di ammirare il savoir faire degli imprenditori (o dei prenditori) locali.
C’è da dire che l’annata è cominciata peggio, con le stragi di Charlie Hebdo e dell’Hyperkacher di Parigi. Il 7 gennaio, una coppia isolata di guerriglieri di fede islamica (probabilmente moderati fino al giorno prima) ha sterminato l’intera redazione del settimanale satirico, colpevole di produrre immagini inammissibili. E, appena due giorni più tardi, un altro barbuto solitario, dimentico degli insegnamenti pacifisti del suo imam, ha trucidato quattro pericolosi e voraci sionisti che si stavano rifornendo di pastrami e hummus in spregio al suo dio.
Senza l’ombra di un dubbio c’è qui un nodo semantico che lega il cibo alle icone, gli occhi alla bocca ed il mangiare al guardare. Di certo, non verrà sciolto in questa sede, ma prendiamone nota.
Tanto più che, ancora a Parigi, il mese di novembre, mois de la photo, è stato trasformato, sempre dagli stessi indipendenti ex-moderati, divenuti assassini (parola di etimologia araba, che significa dedito all’hashish), nel mese dell’orrore, in cui decine di ragazzi inermi sono stati crivellati di colpi mentre mangiavano una pizza e bevevano una birra. Tra le tante, e ovviamente più rilevanti, conseguenze della strage c’è stata anche la chiusura immediata di “Paris Photo”, la più grande mostra mercato di fotografia del pianeta.
Da un lato un mondo che mangia con gusto e gode del piacere degli occhi, anche a costo di cadere nella confusione orgiastica di Milano, dall’altro un universo aniconico, iconoclasta e affamato che coltiva il digiuno, distrugge i templi e vela la bellezza, fino alla negazione del valore supremo della vita. Non spingiamoci oltre.
Novembre è stato anche il mese di una triste ricorrenza, il quarantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini. Non siamo riusciti a evitare le agiografie, scritte a pagamento da coloro che gli rendevano la vita impossibile, né le invettive maldestre di quelli che avrebbero fatto carte false per portargli il caffé sul set. Ci basti ricordarlo come un grande artista ed un intellettuale visionario, fuori dal coro dei chierichetti di regime, la cui scomparsa ha lasciato nella cultura italiana una ferita non ancora rimarginata.
E, visto che siamo nel capitolo delle date meno gioiose, va segnalato un compleanno. Trentacinque anni fa, infatti, l’ineguagliato Achille Bonito Oliva partoriva la “Transavanguardia”. Cioè l’avanguardia retrograda inventata appositamente per occupare la fascia di mercato degli orfani della pittura, esausti di concetti spaziali ed altre stravaganze formaliste, che desideravano di poter affondare gli occhi nelle carni paffute delle muse di Sandro Chia. Un trionfo commerciale di breve durata (oggi è dura per tutti i membri del gruppo) che però ha portato l’Ineguagliato al successo planetario. Al punto che le sue carni di Cavaliere di Gran Croce, nude e leggermente sfiorite, sono state celebrate, in bella mostra, sulle copertine dei periodici. Auguri.
Ma, nell’anno appena trascorso, la pittura ha comunque avuto il suo meritato momento di gloria. Tra il 2 ed il 6 dicembre, al caldo di Miami, Jeffrey Deitch e Larry Gagosian hanno sotterrato l’ascia di guerra e, senza chiedere il parere di ABO, si sono alleati per realizzare una mostra di grande interesse, intitolata Unrealism. Intorno alle tele di pittori eccellenti e da tempo famosi come David Salle, John Currin o Lisa Yuskavage, è stato possibile ammirare i lavori di artisti molto più giovani e meno noti, ma non meno bravi, quali Jamian Juliano-Villani, Jakob Julian Ziolkowski e Jonathan Gardner, per citarne solo alcuni. Riuniti intorno all’idea di Deitch, secondo il quale: “Gli artisti stanno cercando il senso umanistico dell’arte e di questo c’è bisogno, perchè tanta arte, oggi in primo piano, è orientata verso questioni solamente autoreferenziali”. Come dargli torto? Come rinunciare alle immagini?
Alla voce “grandi mostre”, impossibile non ricordare la tremenda Biennale curata da Okwui Enwezor. Aperta eccezionalmente in maggio per fare tutt’uno col pastone dell’Expo, la rassegna si è dipanata come un peana in onore del politically correct con tutte le modulazioni del caso: ambientalismo, pacifismo, propaganda bigotta in favore di qualunque minoranza etnica o sessuale, santificazione di qualunque minorazione fisica o economica. Il tutto naturalmente per arricchire le collezioni di petrolieri, mercanti d’armi, divi di Hollywood, industriali dell’amianto, califfi, oligarchi, gerarchi e ricchissimi dittatori di ogni specie.
Sempre in maggio, mentre a Venezia si recitava Das Kapital secondo François Pinault, a New York, proprio a casa Pinault (Christie’s), si facevano i soldoni con il quadro più caro di tutti i tempi. Quelle Femmes d’Alger (Version “O”) di Pablo Picasso, con volti scoperti e seni nudi in bella vista, aggiudicate a 179 milioni di dollari. Ironia della sorte, e destino di un anno veramente confuso, il compratore era lo sceicco qatariota Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani, che avrà dovuto trovare un compromesso con il suo imam. Vale la pena di ricordare che anche figure di primo piano del Terzo Reich erano insaziabili collezionisti di arte degenerata?
Capitato in un clima di questo genere, è ovvio che l’avvenimento letterario dell’anno sia stata la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq “Sottomissione” ( che forse non tutti sanno essere la traduzione letterale della parola araba Islam). Il contenuto del libro è di tale attinenza alla realtà da far passare in secondo piano qualunque tentativo di critica letteraria, va semplicemente letto come un foglietto di istruzioni per l’uso del mondo che ci circonda.
La stessa casa editrice, nel mese di marzo, mentre un drappello di assassini iconoclasti decimava i visitatori del “Museo del Bardo” a Tunisi (sede della più ricca collezione di mosaici romani che esista), ha pubblicato anche il bel diario del pittore Ryan Mendoza, dal titolo “Tutto è mio”. Degno di essere citato non solo per la qualità della scrittura, ma perché racconta la storia di pittura, sesso e cibo di un artista americano nel cuore della vecchia Europa. Fino all’ossessione dell’immagine, all’eccesso pornografico, alla patologia alimentare. Un itinerario privato che attraversa quell’Occidente nel quale si mangia, si scopa e si guarda fino a non poterne più e al quale finalmente siamo tutti irrimediabilmente affezionati.
Infine, e per la prevedibile gioia di Enwezor, i grandi del pianeta si sono dati appuntamento negli ultimi giorni dell’anno. Dopo aver risolto a Milano il problema della fame, hanno raggiunto a Parigi un accordo decisivo per salvare l’ambiente. Hanno pesato con cura le quantità di anidride carbonica e misurato le temperature, contato gli alberi e valutato l’estensione dei deserti, affermato senza esitazioni l’importanza dell’acqua e ricordato con fermezza la nocività del fumo. Non uno si è lasciato andare alla descrizione della bellezza di un paesaggio, dell’emozione che il rumore di un fiume può provocare o dello stupore per una tempesta di neve. Tutti, rigorosamente, hanno osservato l’ortodossia ecologista dei magazzinieri della natura, che impone di preoccuparsi solo di quantità. Poi, stanchi e felici, sono tornati dai loro padroni, produttori di automobili e frigoriferi, bombe intelligenti e idrocarburi raffinatissimi, per rendere conto della missione compiuta. Staremo tutti meglio.
Purtroppo, come cantava Lucio Dalla, “l’anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va”.