La lingua va dove vuole

I dialetti, quando non siano usati per fomentare le peggiori frustrazioni politiche, possono essere una risorsa. Innanzitutto il conoscerne uno è qualcosa in più, che non va a detrimento della lingua parlata e di quelle straniere eventualmente apprese. Più lingue si parlano, più facilmente se ne imparano di nuove, perché ognuna di esse fa da stimolo alla nostra facoltà innata di apprenderle potenzialmente tutte. Ma lo stesso dicasi per i dialetti, che possono dispensare i medesimi vantaggi del bilinguismo, e chi ne sappia uno appreso fin da bambino e coltivi una qualche forma di curiosità per come le lingue funzionino, lo può verificare.

Il primo a occuparsi degli aspetti formali dei dialetti italiani è stato Dante, che nel De vulgari eloquentia, all’interno di una riflessione sulla lingua molto ampia e che meriterebbe un discorso a sé (e piacevolissima a leggersi), analizza una quantità di dialetti - o volgari italici - del proprio tempo. Lo scopo è di trovare quello più idoneo a divenire quel volgare "cardinale, illustre, aulico e curiale” che aveva a cuore. Cerca cioè quella lingua “naturale che facciamo nostra imitando la nutrice, senza riguardo a regole”, preferita al latino, che chiama “grammatica”, “a cui si perviene solo con lo studio” e di questo “più nobile, perché per prima fu usata dal genere umano, perché tutto il mondo si serve di lei, anche se è divisa per varietà di forme e vocaboli”. Questa lingua, negli auspici di Dante, sarebbe stata impiegata nella futura vita letteraria e civile italiana.

Il fatto che non l'abbia trovata, essendo giunto alla conclusione che essa fosse comune a tutti i volgari ma propria di nessuno, non deve però destinare all'oblio la potente analisi comparativa (ricca di brillanti trascrizioni fonetiche) che ci egli regala. Il romanesco (“il più laido fra tutti i volgari italiani”), il marchigiano e lo spoletino; il milanese e il bergamasco; il friulano e l’istriano (in cui “accentano bestialmente”); il casentinense e il frattegiano, e il sardo (che “imita la grammatica come le scimmie gli uomini”) sono per lui i peggiori. Elogia i poeti del siciliano ma non la parlata del popolo. Idem per il napoletano. Insufficiente pure il toscano (“i Toschi, istupiditi da pazzia, pretendono per sé il titolo di volgare illustre”). Il genovese (“se ai genovesi accadesse di dimenticare la dovrebbero smettere affatto di parlare o farsi una nuova lingua”), il romagnolo (che “fa sembrare donna anche un uomo che pur parli con voce virile”); il bresciano e il veneto (“delle donne ti chiederesti se non siano maschi”), meglio il bolognese che ne miscela i caratteri. 

E Dante ha l’intelligenza di usare nella Commedia, assieme ai latinismi associati a contesti e personaggi di rango elevato, la lingua della più infima plebe fiorentina, dimostrandosi uno scrupoloso sociolinguista, attento alle differenze del parlare e alle loro connotazioni sociali.

Le stesse impressioni si possono ritrovare ancora oggi, nell’Italia linguisticamente unita dalla televisione, ascoltando i dialetti italiani, che in virtù della loro estensione limitata, come specie biologiche rare presenti in zone isolate e poco soggette a contaminazioni, conservano residui grammaticali in uso molti secoli addietro. Così càpita di udire espressioni dialettali, magari mischiate  involontariamente con l’italiano, che dopo una verifica sul vocabolario rivelano la loro stretta vicinanza con idiomi non più in uso. E i riferimenti non sono solo latini, ma greci, arabi, longobardi, bizantini, albanesi, e non di meno rinviano a lingue europee moderne diverse dall’italiano.

Come se una dinamica evolutiva in senso darwiniano avesse selezionato alcuni dialetti, più funzionali e adattabili di altri a determinati scopi o  perché rappresentativi di un potere politico, e ne avesse esclusi altri ancora, meno fortunati, destinati a sopravvivere in ambiti circoscritti, come organi vestigiali di specie evolutesi nel tempo per altre vie. Per questo motivo sono oggi relegati a una letteratura vernacolare e difettano delle forme necessarie a disquisire di filosofia, di politica o di scienza.  Ma sotto l'aspetto grammaticale hanno pur sempre una loro dignità, utile a comprendere per confronto (e la vera comprensione di un fenomeno nasce dal confronto) i meccanismi linguistici generali.

È tuttavia innegabile che certi temi, tra parlanti di uno stesso dialetto, non possono essere affrontati spontaneamente e volentieri in italiano, sentito troppo formale e distante, perché le connotazioni che il dialetto porta con sé sono insostituibili per un dato contesto o un dato stato emotivo. Come tutte le lingue materne, apprese cioè nell’infanzia, risultano inobliabili perché ci raccontano la nostra storia di individui in relazione alla società da cui proveniamo.

E non si creda che i dialetti non abbiano, in diversi casi, un’ottima letteratura, un teatro e una poesia, come se fosse loro impedito averne, e chiunque abbia letto qualcosa di Belli, di Goldoni o di Porta, per citare i più noti, lo sa bene. Certo che se l’orecchio vuole la sua parte, leggendo questa traduzione seicentesca della Gerusalemme liberata in dialetto bergamasco, sarà difficile pensare che l’affermarsi del toscano a lingua nazionale sia caso fortuito, o dovuto a un capriccioso accanimento:

« Al vé vià quacc diàvoi chi gh'è mai
Al segn de quel teribel orchesù.
De pura 'l sa sgörlè i mür infernai.
E serè fò Proserpina i balcù;
I è röse e fiur, borasche e temporai,
Tempeste e sömelèc, saete e tru,
E a par de quel tremàs là zo de sot,
L'è cöcagna balurda 'l teremòt.
 »

Pur trovandosi al mondo lingue meno musicali, resta il fatto che il toscano suonasse decisamente meglio.

“A shprakh iz a dialekt mit an armey un flot”: basta masticare solo un po’di tedesco o di inglese per capire questa saggia frase udita e riportata da Max Weinreich, che fu un sociolinguista del secolo scorso. Dice che “una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”, ed è in yiddish. Due cose in una: sostanzialmente sostiene che le lingue sarebbero tali per via di un potere politico che impone un dato dialetto sugli altri, e lo dice in un dialetto tedesco del IX secolo ibridatosi con l’ebraico, divenuto la lingua della comunità ashkenazita europea (anche se questa non aveva un esercito proprio, ma più di uno da cui fuggire).

A riprova della natura politica, non necessariamente formale, di molte lingue nazionali che hanno prevalso sui dialetti, valga l'esempio dei paesi scandinavi, divisi politicamente ma linguisticamente molto simili (uno svedese e un norvegese possono parlare senza alcun problema di incomprensione), o all’opposto la Svizzera, pragmaticamente inclusiva, con quattro lingue nazionali, delle quali solo il minuscolo romancio autoctono e le altre tre peculiari di altri paesi.

Considerati nella giusta prospettiva, i dialetti non sponsorizzano identità fasulle, ma, al contrario, mettono in luce la vasta reciprocità di indebitamenti interlinguistici e interculturali, assai proficua per ragionare su cosa sia non solo un dialetto, ma cosa sia una lingua, cioè una serie di convenzioni decise dall’ambiente e dalle condizioni in cui si nasce, apprese in virtù di una capacità comune a tutti, i cui fondamenti non hanno nulla di “puro” né tanto meno superiore ad altri.

Se necessitassero, quindi, di una giustificazione per essere conservati e parlati, oltre al piacere di farlo, oltre a essere uno strumento democratico di retrospettiva storica sulle lingue ufficiali, si pensi ai dialetti come alla prova accessibile a tutti che le lingue non sono nate tutte intere, ma vivono di tanti contributi che ce ne illustrano il valore storico e relativo.

 

 

23-03-2015 | 16:14