La grande giovinezza di Sorrentino

La poetica di Paolo Sorrentino, concettuale ed estetica, è ben visibile in ogni suo film. E questo, quando si parla di un regista, è forse una delle cose più importanti: riconoscere lo stile di un artista da poche inquadrature – da poche parole, da poche pennellate... – significa per il soggetto in questione essere entrato in quell'olimpo popolato dai pochi capaci di inventare un codice.

Però nei film del regista napoletano ci sono anche due elementi ben distinti che ricorrono sempre: la consapevolezza e l'epifania. In ogni racconto di Sorrentino i protagonisti sono persone consapevoli di chi sono e del contesto in cui esistono, non si concedono sconti di nessun tipo a costo di cadere – sempre – nel disincanto. Per dirla più diretta: hanno piena consapevolezza di quanto la vita sia caduca e di quanto le cose che la circondano siano, in qualche modo, relative ed effimere. Dai personaggi realmente esistiti, il divo Giulio Andreotti, a quelli nati dalla sua fantasia, da Jep Gambardella ne La grande bellezza a questi protagonisti del suo ultimo film La giovinezza, sono tutti consapevoli delle loro debolezze e della loro finitezza. E da queste consapevolezze, da questo approccio razionalmente spietato che cosa scaturisce? L'epifania, di ogni cosa.

Quando in una scena di Sorrentino accade qualcosa sembra sempre l'apparizione, lo svelamento dello spirito di quella cosa. E come se quella cosa accadesse per la prima volta. Una mano che si alza a interrompere lo scampanio delle mucche come fossero un'orchestra, una veduta di Roma da una terrazza, la soggettiva di una mano cardinalizia benedicente, una passeggiata a notte fonda per una deserta via con la scorta appresso: qualsiasi cosa si manifesti sulla sua pellicola sembra farlo per la prima volta, in assoluto. Però mentre queste cose sono in alcuni suoi film la colonna emotiva, il collante della narrazione, a volte meglio, a volte peggio – paradossalmente peggio nel film che gli è valso l'Oscar – in questo suo ultimo lavoro presentato a Cannes, purtroppo senza premio, diventano la centralità di tutta la narrazione.

La trama brevissimamente: due amici, uno regista in procinto di ultimare la scrittura del suo film testamento, Harvey Keitel, e uno compositore in pensione, Michael Caine, sono in un hotel-spa di lusso a Davos, quello in cui Thomas Mann scrisse La montagna magica (e non incantata, grazie a dio anche l'editoria italiana da quest'anno ha proposto la traduzione giusta del titolo). Tra un trattamento e l'altro parlano, riflettono, rievocano la giovinezza perduta, si confrontano su quante gocce di pipì ha concesso la prostata e di quanta poca indulgenza riservi invece loro – eccola – la consapevolezza. Attorno a loro diversi personaggi sono i testimoni viventi delle loro elucubrazioni. Con un finale antitetico – ma lo sarà poi davvero? – e drammatico, il film percorre lentamente, come i movimenti in adagio di una sinfonia, l'orizzonte definito, limitato, “finito” della vecchiaia guardando nello specchietto retrovisore quello infinito e sterminato della giovinezza.

La grande bellezza, questa sì che lo è, risiede comunque nell'avere avuto una vita piena di curiosità, colta, fatta di cose immortali ed eterne come lo sono quelle di chi nella vita non si è limitato ad esperire ma è andato oltre, ha varcato l'orizzonte dell'immanenza per accedere – e con la musica, così come con la letteratura o il cinema lo si fa – a quello della trascendenza. Quindi non hic et nunc, qui ed ora, ma sempre e per sempre. Due uomini che per ripercorrere la loro vita con cruda onestà hanno bisogno di tornare a guardare le cose con gli occhi dei bambini che furono, innocenti, ma carichi di quel disincanto che solo l'età – accompagnata da una visione razionale – è in grado di raggiungere.

Non è giusto solo ciò che ho fatto della mia vita, ma ciò che avrei potuto fare, indipendentemente dal mio rendiconto personale. Come Montesquieu che, pur riconoscendo l'inclinazione degli uomini verso il piacere e l'interesse personale, inorridiva all'idea che questi fattori potessero diventare la misura di ciò che è giusto e ciò che non lo è. Così i nostri due vegliardi tentano di amare, anche se l'oggetto amato non dovesse esistere. Perché in fondo, forse, ci vogliono dire che nella realtà delle cose c'è una logica. E che in qualche modo possiamo conoscerla.

 

 

24-05-2015 | 20:41