La caccia alle streghe dell'assenzio

L’assenzio è un distillato d’erbe (fiori e foglie di Artemisia absinthium) d’origine francese, essendo stato ideato da un medico nel 1792, tale Pierre Ordinaire, diretto in Svizzera per sfuggire ai moti rivoluzionari organizzati all’insegna della trimurti Liberté, Égalité, Fraternité. Già il nome dell’erborista alchemico transalpino, facilmente traducibile in “ordinario”, ci riporta a un immaginario monastico, ad isolate abazie nascoste tra le alpi, a riferimenti decisamente reazionari rispetto a tutta quella fretta di modernità. Caratterizzata da un deciso aroma d’anice e finocchio, come molte delle eccellenze parigine proveniente dalla campagna, la bevanda può vantare una simbiosi forse unica con la letteratura e con le arti. D’altronde già l’etimologia botanica – Artemisia – si porta appresso questa particolare vocazione demiurgica. Ora, la vicenda è nota e i personaggi pure: Van Gogh, Degas, Picasso, Hemingway, Poe, Wilde, Toulouse-Lautrec, Baudelaire, Rimbaud, addirittura i Bluvertigo a Sanremo, per giungere a tempi più recenti; poi scapigliati e bohémiens, dandies e perdigiorno, la setta degli “assenteisti” può vantare una lista d’affiliati di tutto rispetto.

Noto anche sotto le mentite spoglie di fata verde per via del colore allo stato puro, l’assenzio ha trovato mitologica consacrazione anche grazie al pedagogico proibizionismo, che ne inibì la diffusione agli inizi del ventesimo secolo. Stato padre severo! Intenzionato a togliere la caramella ai suoi figli discoli, con la scusa di combattere l’alcolismo; in realtà cedente alle pressioni della forte lobby vinicola francese, in apprensione per la diffusione dell’erbaceo concorrente. Mai caccia alle streghe ebbe conseguenze così positive: se da un lato la proliferazione dei derivativi pastis e vermut formalizzò il lato ipocritamente presentabile, dall’altro il vero assenzio continuò a essere prodotto, in micro-distillerie carbonare, sovente a gestione famigliare, alimentando così la leggenda maledetta. Ancora oggi, in mancanza di un disciplinare univoco (nientemeno che dalla Comunità Europea…), c’è molta confusione in materia; ma, giocando con Nietzsche, possiamo fottercene: solo dal caos può nascere una verde stella danzante, volendo con ciò sottolineare insofferenza per i regolamenti burocratici. Sarà affare del cercatore riuscire a trovare l’assenzio e soprattutto riuscire a berlo. Anche grazie alla complicità di un fidato barman, mica possiamo pretendere di trovarlo al supermercato.

A voler essere pignoli, al di là dell’ovvio respingimento nei confronti dei liquori “all’assenzio” più o meno industriali, possiamo affermare che non esiste un solo, vero ed originale absinthe. Questo perché le varianti, così come s’è potuto notare nell’ormai popolare mondo dei gin, sono molteplici, vieppiù in considerazione di pregiatissime produzioni dall’approccio tradizionale, per non dire contadino (contadino francese, il che è diverso da come intendiamo il termine qui in Italia). Proprio lì occorre andare a cercare. Il caso de L’Entêté (il testardo) ci pare degno di far sintesi, dato che si porta appresso una bella storia di coerenza e amore per la tradizione pre-bando. Prodotto nell’antica distilleria di Combier (Maine-et-Loire) progettata nientemeno che da Eiffel, questo assenzio può a ragione rappresentare un credibile sinonimo d’autenticità. Per la selezione delle piante, per il rigoroso metodo di distillazione ricavato da ricette tramandate, infine per le lotte portate avanti dal titolare Franck Choisne, battagliero vessillifero dell’ortodossia fatata.

Degustato nel meraviglioso Palazzo delle Misture di Bassano del Grappa – raffinatissimo tempio d’ogni miscelazione degna d’essere degustata, dove rare bottiglie sono accomodate in scaffalature alte fino al soffitto, come in una ottocentesca libreria o farmacia – L’Entêté conferma un’altra regola fondamentale, ovvero la necessaria predisposizione al cerimoniale. Servito dopo una spiegazione di carattere storico, il verde liquido s’è trasformato nell’elegante bicchiere in torbido nettare biancastro, grazie al lento gocciolare d’acqua ghiacciata contenuta in una “fontana” in cristallo dal gusto liberty; rilasciata da un rubinetto, l’acqua trova ostacolo inzuppando la zolletta di zucchero, sapientemente posata su apposito cucchiaio traforato, per poi raggiungere a caduta l’assenzio in alchemiche nozze sensoriali, fino al livello prestabilito sul calice. Ecco, poi si può bere. Ecco, poi si può anche dire di non essere esattamente gli stessi che poco prima fecero ingresso nel locale. Non solo ebbrezza, giacché la gradazione alcolica viene sfumata dal ghiaccio sciolto, ma piuttosto un balsamico torpore, un incantamento ovattato e metamorfosico. Suggestione? Al lettore la possibilità di confutare, partecipando a una caccia alle fate nei migliori locali della penisola. Una volta trovate, ci si sentirà trovati.

16-01-2017 | 17:27