Il volo libero di James Joyce

Come è risaputo, l’Ulisse di Joyce ruota intorno a tre personaggi principali, Leopold Bloom e sua moglie, l’adultera e carnale Molly, e Stephen Dedalus, il giovane artista che incontra Bloom e che in lui pare ritrovare una figura paterna, e non solo. Ma Stephen Dedalus, oltre ad avere lo stesso nome che Joyce utilizzò come pseudonimo per la pubblicazione del racconto “Le sorelle” (dunque suggerendo un’idea obliqua di autobiografia), è un personaggio che ha già popolato significativamente la narrativa dell’autore: egli è infatti il protagonista del romanzo di formazione A Portrait of the Artist as a Young Man (tradotto come Ritratto dell’artista da giovane o, da Cesare Pavese, come Dedalus).

Il testo narra la vita di un giovane scrittore a partire dalla sua infanzia fino agli anni dell’università e alla sua definitiva autocondanna all’esilio, quando decide di proclamare il suo fierissimo non serviam nei confronti della famiglia, della patria e della religione, le tre “reti” che impedivano il suo “volo” –  quel volo che lo stesso Joyce ha poi spiccato al di fuori di Dublino.

Il romanzo però ha una genesi lunga e singolare, e deriva in primo luogo da un articolo intitolato “Un ritratto dell’artista” che fu rifiutato dalla rivista Dana. Superata la delusione, Joyce lo rielaborò e lo sviluppò in quello che sarebbe dovuto essere il suo primo romanzo, Stephen Hero (tradotto come Stefano eroe o Le gesta di Stephen). A causa delle difficoltà incontrate con la pubblicazione dei racconti di Gente di Dublino, scritto in precedenza, Joyce ebbe una vera crisi di scoraggiamento e, in un momento di disperazione, gettò il manoscritto del romanzo nel fuoco. Solo l’ultima parte fu salvata dai suoi familiari, quella relativa agli anni universitari di Stephen (poi pubblicata nel 1944).

Da questa pagine miracolosamente salvate Joyce riscrisse poi la storia ex novo, adottando il primo punto di vista veramente modernista della sua letteratura e creando il capolavoro del Portrait. La vicenda narrata nei due testi è più o meno la stessa ma i cambiamenti apportati da Joyce sono sia estremamente illuminanti per comprendere il suo metodo letterario, sia  estremamente utili per un aspirante scrittore, essendo essi stessi un segno tangibile e inequivocabile del laboratorio linguistico e letterario che ha poi generato i grandi capolavori della maturità. 

Entrambi i libri sono di chiara ispirazione autobiografica, tesi a promuovere una nuova visione dell’artista, un eroe rivoluzionario all’interno della repressiva e paralizzata società irlandese.  Joyce racconta e descrive le modalità con cui l’eroe tenta di  fuggire dal labirinto della sua patria e della società patriarcale e religiosa d’Irlanda, e di costruire così il suo personale dedalo artistico.  Ma nel primo libro, Stephen Hero, i toni sono decisamente più aspri e polemici, e più didascalici, e la ribellione giovanile sembra essere il tema principale che influenza sia la narrazione sia lo stile che ne sorregge lo sviluppo. Nella versione successiva tale asprezza sarà smorzata e fatta confluire in un personaggio la cui complessità psicologica prevede molteplici sfumature inafferrabili, le quali a loro volta si mescolano le une alle altre creando, durante la crescita, imprevedibili ibridazioni emotive. Anche la narrativa era più selvaggia nella prima versione, carente di quella struttura  e di quell’architettura sintattico-formale che troviamo nei cinque compiuti e compatti capitoli del Portrait, in cui la lingua cresce e si modifica mimando la crescita del giovane.

Molti sono poi gli episodi del quotidiano che vengono cancellati a favore dell’ampliamento narrativo della coscienza di Stephen e delle sue associazioni più o meno volontarie. Infine, solo nel Portrait troviamo fortissimi richiami ironici, seppure sotterranei, evidenti nella descrizione del giovane artista, il quale, solo in questa versione, risulta talvolta patetico e romanticamente pieno di sé, capace di grandi elucubrazioni ma incapace davvero di scrivere. Attraverso l’ironia, visibile soprattutto nell’anticlimax emotivo con cui inizia ogni nuovo capitolo (spegnendo del tutto i momenti epifanici con cui terminava il precedente), e attraverso uno stile più scarno e controllato (ma estremamente lirico al tempo stesso), Joyce abbandona o meglio depura una scrittura che nasce come narcisistica e autoreferenziale  e la rende più realistica nel suo essere anche visionaria,  incentrata cioè sulla riproduzione “esatta” della coscienza e della fantasticheria. Mentre in Stephen Hero l’artista è un acuto osservatore della realtà, infatti, nel Portrait egli diventa un acuto osservatore della sua mente che osserva la realtà, aprendo così il varco per l’ingresso di Ulisse nella letteratura mondiale.

Quella di Stephen Hero è una lingua ancora immatura che Joyce definisce “la produzione di uno scolaretto”, una lingua che sostiene pensieri ancora poco profondi (almeno per l’autore) ma che serve a Joyce per avanzare nel suo cammino di sperimentatore. È una lingua che dimostra come un virtuoso della parola e della vita come Joyce abbia sentito la necessità di distaccarsi esteticamente dalla propria esperienza personale per poi riuscire finalmente a ricrearla, attraverso le tecniche proprie della fiction, in modo tale da farla apparire ancora più reale e autentica, e arrivando così, come egli stesso afferma, a “ricreare la vita dalla vita”. 

 

 

11-06-2014 | 08:32