Il tormento irrisolto di Herzog

Che avranno mai pensato gli spettatori che nel 1970, a Cannes, ebbero la (s)fortuna d’assistere alla prima di Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Werner Herzog? Quali le impressioni borghesi dinnanzi ad una delle espressioni artistiche più estreme e nichiliste impresse su celluloide? Girato in un paio di mesi a Lanzarote – Canarie spettrali, assai diverse dalla cartolina attuale ad uso turistico – il film si caratterizza per la presenza davanti alla cinepresa di soli attori nani, nonché per il B/N cianotico, povero, fortemente espressionista. Giustamente mai doppiata, ma da tempo fruibile in dvd con sottotitoli in italiano, la pellicola si regge non tanto sulla trama, di per sé labile ed apparentemente sconclusionata, bensì sulla tensione continua e crescente che ne permea la cruda narrazione. Vicenda decisamente borderline, per certi versi accostabile a Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, resta saldamente collocata in un’epoca in cui la bizzarria espressiva non era pretesto per effimeri vezzi autopromozionali ma frutto di sperimentazione coraggiosa. Eppure, pensando ad esempio alla dialettica in corso sull’immigrazione o sui diritti civili, potrebbe essere riletta oggi con occhi diversi, senza i tipici pregiudizi da cineforum ma come presupposto per indagare la diversità senza troppi ricami. Contrariamente a quanto affermato da critiche sbrigative non si tratta di opera grottesca, ad avviso dello scrivente qui non siamo nell’ambito del catalogabile, nemmeno come da più parti affermato riconducibile al sottogenere Freak; traducendo l’espressione dall’inglese, ovvero fenomeno da baraccone, notiamo come l’etichetta sia in questo caso totalmente inappropriata. Essendo tutti nani i protagonisti della vicenda, rispetto a chi o a cosa dovrebbero rappresentare un elemento deforme? Forse solo agli occhi del pubblico comodamente seduto in sala, presumibilmente di statura “elevata” e propenso a sentenziare. Visto poi che le vicende si svolgono all’interno di un microcosmo chiuso ed isolato, dove gli unici segni di alterità – ovvero appartenenti alla nostra “normalità” – sono case, arredi, automezzi, si finisce facilmente per dedurre che un’altra consuetudine ha preso il sopravvento sull’abitudinaria, diversa nell’aspetto quanto identica nella sostanza.

S’accennava alla trama evanescente: all’interno di una colonia, forse un riformatorio, è asserragliato con un ostaggio il direttore, baluardo impotente dell’ordine costituito. Fuori un gruppo di ribelli evasi inscena una sordida rivolta. Colpisce la fastidiosa vacuità, ottusamente goliardica, che caratterizza ogni azione dei sovversivi, l’impietosa attività sabotatrice che degrada via via verso un’oscena rappresentazione del male fine a se stessa. Tra schiamazzi e risate estenuanti nulla viene risparmiato, parrebbe che nel delirio iconoclasta del branco venga ad imporsi un darwinismo senza pietà. Un darwinismo tra reietti coalizzati, normalizzato in degrado morale, banalizzato dal tratto comune della deficienza e dall’immunità fra sodali. Che ne direbbe l’antropologo René Girard, teorico del capro espiatorio e del desiderio mimetico? L’intero film è un’epifania frustrata, un tetro rituale dei cerimonianti attorno alla preda designata: la bellezza deturpata, la misura oltrepassata, il vilipendio del patto tra pari. Tuttavia, nel caos imperante, almeno tre aspetti fra i meno disturbanti meritano di essere ricordati: la macchina che gira in tondo senza autista – scena feticcio che gli ammiratori di Herzog vedranno riproposta ne La ballata di Stroszek del 1976 – quale metafora del circolo vizioso, della spirale senza via d’uscita; i canti ipnotici tradizionali delle Canarie della colonna sonora, nenie quanto mai appropriate nell’intento di rafforzare l’atmosfera di visionario spaesamento; infine le poetiche/patetiche figure dei due “guardiani ciechi”, unici ipotetici rappresentanti dell’autorità in avanscoperta, messi alla berlina dai sovversivi.

Episodio reazionario, apocalittico ed oscurantista - se non desse fastidio affermarlo vista l’etichetta d’avanguardista appioppata ad Herzog dalla critica - Anche i nani hanno cominciato da piccoli trasmette inquietudine proprio per l’esplicita volontà di minare la certezza illuminista che vede nella ragione (sempre così astratta) il principio regolatore del consorzio umano, nonché per l’intenzione di ribaltare la prospettiva progressista incardinata nel binomio solidaristico normalità/diversità, lasciandone immutati i disastrosi esiti collettivi. L’ipocrisia caritatevole del “dobbiamo aiutarli”, chiunque siano i destinatari, viene vanificata nel film con un gioco di specchi: anche i deboli ed i minorati sono cattivi, potrebbero quindi esautorare i normodotati dall’essere buoni, privandoli del soggetto stesso delle loro coscienziose attenzioni. Qui l’irrazionale forza bruta, tradotta sovente in blasfema liturgia, è addirittura organizzata senza un motivo apparente e finisce per esaurirsi in un nulla di fatto altamente simbolico. E’ questo infatti l’emblema di un affanno inguaribile, il tormento irrisolto dello stolto, di chi non s’è accorto della possibile bellezza attorno, preferendo di fatto indugiare nei reami pornografici dell’abbandono e dell’incuria. Immagini dormienti, è con questa sintesi che il regista bavarese ha indicato il dietro le quinte, l’inconscio, tutto il non detto presente e velato dal film stesso attraverso l’espediente immorale. Sono proprio i nani, con la loro stereotipata simpatia di matrice circense, a guidarci nell’oscuro paesaggio onirico che il film dischiude, direzione inanità: ecco come finiscono le rivoluzioni, probabilmente diventando grandi.

 

 

17-09-2015 | 15:19